Nell’anno 2020 la società aveva già ignorato il dramma delle carceri sotto attacco Covid, propriomentre stava accadendo. Se non fosse stato per l’insensata spedizione punitiva degli agenti controi detenuti di Santa Maria Capua Vetere, conclamata in queste prime settimane di luglio, nessunoavrebbe più ricordato gli eventi eccezionali di tempi terribili.Fra febbraio e aprile 2020, centinaia di migliaia di detenuti in tutto il mondo tentarono in ognimodo di non fare la fine dei topi.Alcune nazioni (Iran, Turchia) ne scarcerarono decine di migliaia per precauzione. In altre furonopresi provvedimenti di distanziamento in fretta e furia. In Italia sospesero temporaneamente lapena a qualche centinaio di anziani e malati, tra le stravaganti proteste dei politicanti sulle“scarcerazioni facili” dei “super-criminali”.Nella condizione di scandaloso sovraffollamento e promiscuità, alcuni detenuti italiani, isolati daogni contatto coi familiari, attoniti di fronte alle migliaia di morti quotidiane nelle città oltre lemura invalicabili, si ribellarono e tentarono la fuga disperata. Inutilmente.Lo Stato agisce e vince sempre contro i pochi o i tanti che si scatenano contro di lui.Ma c’è modo e modo di agire: a Santa Maria Capua Vetere lo Stato è rappresentato dalla mattanzavideoregistrata degli aguzzini contro i reclusi inermi.A Rebibbia lo Stato è rappresentato da un Corpo di Polizia Penitenziaria che con fermezza, ragionee persuasione placa gli animi dei rivoltosi e mette in sicurezza il carcere in poche ore, senza torcereun capello a nessuno. E subito dopo cerca e trova le risposte possibili a tanta angoscia e rabbia dichi vive oltre i cancelli. E di chi là dentro deve lavorare.In queste due risposte, ben distinte, al drammadel Covid in carcere, consiste la differenza fravisioni opposte della pena: la prima è l’afflizione del condannato come vendetta sociale.La seconda è l’offerta di una nuova opportunità per chi ha sbagliato.Al Carcere di Rebibbia si pratica la seconda. Rebibbia Lockdownla racconta in presa diretta.
SINOSSI
Con l’arrivo della pandemia, in pochi mesi sono accadute in carcere tante cose che vale la pena di provare a raccontarle. In origine, prima del Covid 19, quattro ragazze e ragazzi laureati alla Luiss vengono incaricati da Paola Severino di accompagnare i reclusi di Rebibbia nel percorso universitario, verso la laurea in Giurisprudenza. Quando tutto è pronto per quel cammino degli innocenti fra i delitti e le pene, arriva il virus e il mondo si congela. Il carcere è impenetrabile, serrato ne l terrore che il contagio dilaghi e faccia una strage. Il progetto sulla Legalità con i detenuti si ferma. Tutti finiscono per mesi chiusi in casa, come agli “arresti domiciliari”: forse per la prima volta, fra vita libera e vita reclusa c’è una somiglianza. Questa vicenda viene raccontata in
Rebibbia Lockdown con ogni mezzo ancora possibile: la scrittura, il disegno, l’immaginazione. E la macchina da presa. Un incontro fra ragazzi e detenuti che, mentre il mondo cambiava, ha cambiato profondamente ciascuno dei protagonisti, sul piano dei vincoli umani. Il racconto di Rebibbia al tempo del lockdown non è il fine, ma il mezzo che usano i protagonisti
per chiudere il cerchio di un episodio tanto drammatico della loro vita. Su tutti quanti ha aleggiato per mesi una domanda poco “filosofica” e molto concreta: “Se la mia vita finisse oggi, avrebbe avuto un senso?”. In un epistolario durato mesi, fatto di 100 lettere fra detenuti, ragazzi e agenti penitenziari, c’è questa frase di Giovanni, 20 anni da scontare: “Cara Francesca, non ho mai nemmeno immaginato che la vita potesse finire, ho sempre osato, giocandomi tutto e rischiando
oltre la misura. Ma oggi è diverso. È venuto il tempo di scavare in profondità, alla ricerca di ciò che è stato autentico nella mia vita, perché domani potrebbe essere tardi per fare i conti con me stesso”. Sono le parole di un detenuto, ma si fa fatica a immaginare che riguardino solo lui, e non anche ciascuno di noi. L’invenzione di questo film è rendere visibile l’invisibile. La tecnica narrativa è spinta al limite, fra la ricostruzione di fatti drammatici dell’attualità, condensati in una frase o in uno sguardo, e la resa dei conti di vite intere di crimini e misfatti, consumate in una confessione occhi negli occhi con lo spettatore. Come quando Martina, neolaureata, chiede a Francesco (settantenne con vent’anni da scontare): “Ma lei, si sente colpevole?”. La risposta coinvolge l’anima e la mente. Ogni interprete di questo film, sia recluso o libero, è autore della propria “parte”. Maschera e volto. Poi c’è un aspetto ancora più estremo del film: l’esplosione delle rivolte nelle carceri quando è arrivato il virus. In migliaia hanno tentato la fuga disperata, in tutto il mondo. In quei giorni Peppe, ergastolano, nella totale solitudine, assiste dalle sbarre della sua cella ai tumulti nei cortili, e così commenta in una lettera: “Caro Giacomo, provo a farti capire lo sgomento e la rabbia qui dentro.
Hai presente i galeotti incatenati ai remi delle galee romane? Quando vedevano i bagliori di un incendio a bordo, pregavano Dio che la nave affondasse prima di bruciare: per morire meglio l’acqua del fuoco”. Scrive un Agente della Polizia penitenziaria: “Cara Angelica, mi chiedi notizie da qui dentro. I vostri studenti detenuti stanno tranquilli in Reparto. Il problema è che tutti quanti qui, noi e loro, abbiamo paura di fare la fine del topo”. Nei giorni delle rivolte la macchina da presa non poteva entrare. Le inquadrature delle telecamere di videosorveglianza di S. Maria Capua Vetere hanno svelato in seguito una realtà che assomiglia alle immagini del film La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo. Ma quella non è ancora tutta la verità. Come rappresentare i tentativi di fuga, la paura, la violenza, la vita segreta di quegli uomini arroccati dentro la fortezza come in un deserto dei tartari? Gli uni per condanna, gli altri per dovere professionale. Valicato l’ultimo limite della sintassi cinematografica, un grande disegnatore trasforma in animazioni i racconti e le deliranti visioni mentali di un giovane artista ergastolano.