Il cineasta che convive con l’ironia delle sue storie, attraverso il riso porta sullo schermo la tragedia
Tra “Train de vie” (1998) ed il nuovo “Il concerto” (2009) sono passati undici anni eppure il passo è più breve di quanto possa sembrare. Radu Mihaileanu mostra un filo conduttore tra le sue opere, i personaggi agiscono sempre su uno sfondo storico principale che fa da cornice alle storie dei suoi protagonisti, vittime di una storia che nel novecento li ha spesso emarginati, precludendogli una piena personalità individuale lasciandoli in un limbo da cittadini al limite dei loro diritti e delle loro ambizioni. Sono storie che riflettono spesso la sua vita, figlio di Mordechai Buchman, ebreo di origini moldave, in età adulta decide di mantenere il falso nome scelto dal padre per sfuggire ai campi di lavoro nazisti; a sua volta scappa, fingendo una breve vacanza in Isreale, dalla Romania di Ceacescu per rifuggiarsi dal 1980 a Parigi dove da allora vive e lavora alla stesura dei suoi film, mai separati dalle sue radici, mai troppo distanti dall’oppressione e dalle necessarie finzioni che hanno accompagnato la sua storia.
Un villaggio ebraico che cerca di sfuggire alle deportazioni naziste, un direttore d’orchestra deposto e allontanato dalle scene nell’unione sovietica di Breznev. Da Shlomo ad Andrei Filipov emerge un carattere costante presente egualmente all’interno delle loro miserie ed è la possibilità di confrontarsi con queste, di superarle attraverso le diverse facce che la miseria stessa può offrire, una necessità che nei personaggi diventa un punto di forza, una volontà di riscatto e di salvezza più forte dei rischi che si corrono seguendo strade apparentemente impercorribili e folli.
Il riscatto si presenta come la resistenza a una storia che ha più volte minato le libertà degli individui sotto gli assolutismi del ventesimo secolo. Quelle che Mihaileanu propone sono trame che iniziano raccontando una vita di persone qualsiasi, persone come altre, schiacciate da un contesto in cui l’individuo è solo una frazione della massa, ma che proseguono nell’ironia dell’assurdo attraverso il quale i personaggi riescono ad emergere, si caratterizzano nella ricerca della loro salvezza, del loro riscatto. Nell’evolversi dei film gli scambi di ruolo sono costanti, le identità spesso confuse, dal finto treno di nazisti di “Train de vie” all’orchestra del bolshoi de “Il concerto” nulla è mai come appare, il tema della bugia positiva è ricorrente, i protagonisti portano avanti la trama attraverso piccoli imbrogli che vivono in relazione alle grandi menzogne dei loro contesti storici per potersi rimpadronire delle loro vite, per ritrovare un’armonia che altrimenti gli sarebbe negata.
Mihaileanu convive con l’ironia delle sue storie, attraverso il riso porta sullo schermo la tragedia, racconta la condizione ebraica durante il nazismo come solo “Vogliamo vivere” di Lubitsch e “La vita è bella” di Benigni sono riusciti a fare, con una nota pungente di verità che domina lo sfondo di personaggi fuori dagli schemi abituali che il cinema ci aveva insegnato a leggere. L’uso e la ricerca dell’ironia non va però valutata come una leggerezza da parte del regista, bensì come una rivalsa, come un segno di vita, dimostrare attraverso il cinema e la risata che il popolo ebraico è vivo, che “non c’hanno distrutti, che l’umorismo non è stato cancellato dalle barbarie naziste”.
Nel cinema di Mihaileanu si spazia dal dolce all’amaro con rapidità , l’ironia e la commozione sono caratteri di un cinema non monocolore, creativo e dinamico, che racchiude tutti gli ambiti della vita, senza mai escludere emozioni contrapposte, e che spiega come la finzione non debba distaccarsi troppo dalla realtà per racchiudersi in un genere, come una scelta stilistica non debba seguire un’unica direzione per raccontare una storia.
Fabio Felsani