Raccontare una fiaba è un rito antichissimo, le sue origini risalgono addirittura alla preistoria. Racconti, dal forte carico simbolico, sono stati tramandati di generazione in generazione fino a trasformarsi in tradizioni capaci di riunire in un corpo solo interi popoli. Pur se inventate in un determinato periodo storico le fiabe hanno un carattere universale: il loro messaggio è comprensibile a ogni latitudine e supera le barriere del tempo. Le fiabe sono ovunque intorno a noi, oggi si chiamano storie ma la loro funzione è sempre la stessa: aiutare l’umanità a crescere.
Stereotipi o archetipi?
Nel suo monologo per l’inaugurazione dell’anno accademico dell’università Luiss Guido Carli, Paola Cortellesi ha focalizzato la sua attenzione sugli stereotipi di genere di cui sarebbero imbevute le fiabe. A questo proposito ha citato, per esempio, il caso di Biancaneve impiegata come colf presso la casa dei sette nani e di Cenerentola riconosciuta per una scarpetta invece che per il suo viso. Tra l’altro, se fosse stata una cozza, nessuno se la sarebbe filata.
Ora, senza focalizzarsi sulle reazioni che l’intervento dell’attrice e regista ha suscitato (che rischierebbero di tirare in ballo i sindacati delle colf e i rappresentanti delle categorie pescatori/allevatori di mitili) le fiabe, com’è noto, seguono uno schema ricorrente funzionale al loro ruolo.
La struttura narrativa segue un percorso che porta il/la protagonista da un momento felice della sua vita a un altro passando per una complicazione che da il via a peripezie e prove. Chi non ha mai sentito parlare del Viaggio dell’Eroe? I personaggi delle fiabe sono costruiti secondo archetipi, cioè secondo modelli, ognuno con una sua funzione. Presenti già nella mitologia greca, gli archetipi sono stati a lungo studiati da Carl Gustav Jung che li ha ulteriormente sviluppati. A un occhio esperto non sfuggono l’Orfano, il Guerriero, l’Angelo custode, il Mago, il Saggio o il Folle (solo per citarne alcuni).
Fiabe sessiste o “femministe”?
Altro dettaglio sul quale vale la pena soffermarsi è la storia che le fiabe narrano. Gli addetti ai lavori sanno che una storia narra l’arco di sviluppo di un personaggio. Racconta, cioè, il processo di crescita che il o la protagonista vive (altrimenti che eroe o eroina sarebbe) in conseguenza delle avventure generate dalla complicazione che ha interrotto il corso felice della sua vita.
Leggendo le fiabe sulle principesse, che oggi sono così bistrattate, notiamo che esse sanno reagire in modo resiliente alle sciagure. Biancaneve, cacciata dalla sua casa, trova un alloggio in cui stare e si offre di dare il suo contributo, Cenerentola coglie un’opportunità di riscatto dalla condizione di serva decidendo di partecipare al ballo organizzato dal re.
Il principe azzurro? Cosa vogliamo dire di lui? Per lui, udite udite, non c’è nessun arco di sviluppo. Il principe all’interno della fiaba non subisce alcun processo di crescita. E’ solo uno strumento narrativo per raccontare che dopo tante pene la protagonista, l’eroina, torna a una vita felice.
Raccontare una fiaba, riscrivere le storie
L’arte di raccontare storie oggi è diventata un’industria che sostiene cinema e piattaforme streaming. Tante sono le riletture delle fiabe classiche, che nascano partendo da un punto di vista diverso o arricchendole con elementi di modernità. Tanti sono anche gli spin off delle fiabe che approfondiscono la vita di personaggi minori ma ritenuti interessanti.
La tendenza più pericolosa, però, alla quale stiamo assistendo già da un po’, resta quella di riscrivere le storie. Il revisionismo sta investendo tutto il settore dell’audiovisivo. Ci sono senza dubbio prodotti che incarnano ciò che oggi consideriamo come disvalori ma da qui a farsi portabandiera della cancel culture c’è molta strada. Forse ciò che ci sfugge, in questa corsa al dettaglio, è il senso profondo delle fiabe. Come diceva Gilbert Keith Chesterton “Le fiabe non raccontano ai bambini che i draghi esistono. I bambini sanno già che i draghi esistono. Le fiabe raccontano ai bambini che i draghi possono essere uccisi“. A volte i draghi si uccidono lavando i piatti o andando a un ballo.
In copertina foto di Adam Derewecki da Pixabay