La provincia di Napoli e Napoli città un tempo avevano numerose squadre di calcio legate alle aziende industriali dislocate sul territorio. In pratica un tempo le aziende davano quello che nell’antichità i Romani chiamavano panem et circenses, espressione con la quale il poeta Giovenale (Satire X, 81) sintetizza le aspirazioni della plebe romana nell’età imperiale, spesso ripetuta in senso ironico e polemico. Nel nostro caso il pane è ben diverso, duro da conquistare, in modo particolare negli ultimi tempi, mentre il gioco del calcio nasce come puro divertimento, anche se con qualche eccezione. Ma questo qui non ci interessa.
Per prima cosa occorre dire, per avere un quadro più ampio delle attività produttive napoletane, che esse, prima dell’Unità d’Italia, erano floride e numerose, quando nel resto d’Italia erano strutturate in modo quasi artigianale. In una strada di Portici (Pietrarsa) vi era il più grande opificio ferroviario d’Italia che dava lavoro a 1050 operai fino al giugno 1860, mentre l’Ansaldo di Genova garantiva lavoro appena a 480 operai (la FIAT non era ancora nata). A Pietrarsa si producevano treni e affini e fu costruita la prima ferrovia italiana, la Napoli-Portici. La ferriera di Mongiana, in Calabria, allo stabilimento “Ferdinandea”, « sfornava in media 1.442 canne per fucile e 1.212 canne per pistola al giorno, ancora una volta soltanto grazie all’intervento dei Borbone che ne migliorarono i mezzi di produzione, aggiornandoli attraverso l’invio di alcuni studiosi in Europa a studiare le metodologie inglesi e francesi per produrre ferro» (Domenico Romano, Tutti i primati di Napoli e del Regno delle Due Sicilie, in «Vesuviolive», 3 maggio 2014).
Il primo saponificio fu napoletano, quello dei “Bevilacqua”, anche le prime manifatture tessili con la produzione del lanificio in piazza De Nicola dell’amalfitano Raffaele Sava, prodotti che coprivano tutto il mercato della penisola, che facevano concorrenza ai prodotti francese e che davano lavoro a circa 700 operai. Durante il regno di Ferdinando II si ebbe la convinzione che l’industria dovesse basarsi sulla sicurezza, la dignità e la socializzazione, con l’istituzione di luoghi di aggregazione, quali, per esempio, quelli della preghiera da mettere al servizio dell’intera popolazione, e non solo per gli operai.
Significativa, a tal proposito, la presenza fissa di un luogo riservato alla preghiera all’interno degli opifici, il tutto documentato in un appello inviato all’Istituto d’Incoraggiamento alle Scienze Naturali «perché rivolgesse tutte le sue cure a vedere quali rami di industria potessero a preferenza prosperare tra noi, perché più adatti all’indole dei nostri concittadini, alle loro tendenze ed ai mezzi che ne somministrano il suolo, il clima, l’aria…» (Atti del Reale Istituto d’Incoraggiamento alle Scienze Naturali, Napoli, 1855, tomo VIII, p. 304). Un altro dato importante di civilizzazione nel Regno di Napoli era dato dalla più bassa concentrazione di lavoro minorile e dalla più bassa percentuale di mortalità infantile, mentre in Piemonte, nell’aristocratico Piemonte sabaudo, in 964 fabbriche lavoravano 8186 bambini.
La politica economica borbonica ebbe anche un plauso dal primo ministro conservatore inglese Robert Peel, capo di una fazione denominata “peelites”, promotore della grande era liberistica in Gran Bretagna: «Il governo di Napoli è stato uno dei governi che si è affrettato a seguire questa linea di politica commerciale. Io debbo dire, per rendere giustizia al Re di Napoli, che ho visto un documento scritto di sua mano e questo documento racchiude principii tanto veri quanto quelli sostenuti dai più illustri professori di economia politica».
Una società senza arte non è una società completa. Di questo ne era ben conscio Ferdinando II. Difatti, il 30 maggio 1853 inaugurò l’ultima “Solenne esposizione di Arti e Manifatture del Regno delle Due Sicilie” presso la nuova sede dell’Istituto (Palazzo Tarsia), con capitali e ingegni tutti locali, autarchici. Scriveranno in quegli anni gli analisti: «mirabil cosa e certamente straordinaria, il vedere come senza la impulsione altrove ottenuta dall’agglomeramento di enormi capitali e dall’immensurabile meccanica forza di macchine grandiose, sien stati presso di noi bastevoli motori, la ben intesa direzione governativa, lo scarso peculio del privato, l’amor dell’arte, la svelta intelligenza degli industri e abili fabbricanti e produttori…» (Francesco Santangelo, Discorso letto il dì 31 luglio 1853, in Atti del Real Istituto d’Incoraggiamento alle Scienze Naturali di Napoli, tomo VII, Napoli, 1855, p. 433).
Dopo l’invenzione della prima nave a vapore, del ponte in ferro “Real Ferdinando” sul fiume Garigliano, il primo sistema di illuminazione a gas dopo quello di Parigi e Londra, il primo telegrafo elettrico, il primo sistema di fari lenticolari, l’istituzione sul Vesuvio del primo centro sismologo, etc., come sappiamo, con l’Unità d’Italia ci fu un lento e inesorabile “scippo” delle nostre fabbriche e invenzioni da parte dei signori del nord.
Le industrie che resistettero al declino e alla crisi meridionale, nonché al conseguente impoverimento delle risorse non solo umane, furono quelle manifatturiere, concentrate tra Napoli, San Leucio e Salerno, della lavorazione di coralli, pastifici e cantieri navali. Ma nonostante la legge del deputato Francesco Nitti del 1904 (uno dei massimi studiosi della “questione meridionale”) per il risorgimento economico di Napoli, i maggiori beneficiari furono le industrie siderurgiche, consentendo all’Ilva di instaurare una sua fabbrica a Bagnoli. L’Ilva (comunemente detta anche Italsider) fu probabilmente anche la prima azienda che finanziò una squadra di calcio napoletana, la S.C. Ilva Bagnolese sorta nel 1909. Giocava con una maglia nera con in petto una stella bianca, la stessa maglia usata dalla gemella Casale, in Piemonte, anch’essa di proprietà dell’industria siderurgica. L’impianto sportivo utilizzato dalla squadra era il “Campo dell’Ilva Bagnoli”, situato sulla Via Enrico Cocchia, all’altezza dei vecchi forni a calce, sotto la collina di Posillipo. Era costruito in cemento armato, aveva una capienza di circa 8.000 posti ed è stato utilizzato fino agli anni ’60 (I campi a disposizione dei calciatori napoletani, in «www.riccardocassero.it.»).
Qualche decennio dopo, una fabbrica di fiammiferi e cerini, la S.A.F.F.A. (Società per Azioni Fabbriche Fiammiferi e Affini), della nota industria milanese, una delle più importanti fabbriche italiane fondata nel 1871 dall’industriale Giacomo De Medici, che a Napoli aveva un impianto nella zona di Poggioreale, in via Stadera, diede vita alla A.C. Juve Saffa. Per onore di cronaca, dobbiamo dire che a Napoli già esisteva una fabbrica di fiammiferi e di cerini (la prima fabbrica italiana, che rientrava nel vanto dell’industria borbonica), impiantata nel 1828 dal perfezionatore di questo prodotto per accensione, il chimico inventore ebreo piemontese Sansone Valobra (Fossano 1799 – Napoli 1883), ricerca che divideva con il tedesco Sauria Kammerer, anche se all’estero fecero a gara a chi si prendesse il merito dell’invenzione. Della partita fecero l’ungherese Irinyi, l’inglese Walker, l’austriaco Romer e il polacco Schoevetter.
Dalla industria conserviera ed alimentare Ciro di San Giovanni a Teduccio dell’industriale Francesco Cirio di Torino, fu fondato il CRAL Cirio. Questa società calcistica vide la luce nel 1935, a seguito della fusione con la vomerese Alba Napoli. «A quei tempi il campo di calcio era a Barra e l’allora presidente, Peter Signorini, investì molte energie per assicurare una formazione degna per quei dodicimila tifosi che ogni domenica seguivano la squadra. Con la sede a Barra e la maggior parte dei tifosi al Vomero, il club decise di far giocare le partite di campionato nello stadio Collana» (Quando c’era l’Internapoli la squadra del Vomero, in «Vomero Magazine», 1 febbraio 2017). Il suo massimo campionato fu la partecipazione alla Serie C, per la prima volta nel 1947. Il 30 giugno 1964, Giovanni Proto e Carlo Del Gaudio, rivelarono il titolo del CRAL Ciro e fondarono l’Internapoli Football Club. Riportarono la squadra al Vomero che divenne la seconda squadra della città.
Alla fine della seconda guerra mondiale (1944) nacque la Juve Alfa Pomigliano, grazie all’industria automobilistica “Alfa Romeo”, di proprietà dello Stato, che nel 1938, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale incaricò l’Alfa Romeo di impiantare una fabbrica (oggi stabilimento “Giambattista Vico, di proprietà della “Fiat Chrysler Automobiles”) nella cittadina. Il club rappresentava il dopolavoro sportivo dello stabilimento con partecipazione al campionato di 1° Divisione Campania. Si giocava su un campo sportivo adattato sugli spazi esterni dell’Alfa Romeo. La squadra venne iscritta nel 1944 al “Torneo della Liberazione” nel girone B (i campionati erano fermi per la guerra) con Baiano, Internaples e Napoli. Al termine del torneo la Juve Alfa si classificò al terzo posto mentre le due squadre di Napoli si classificarono per il turno successivo. Rimane la soddisfazione per i calciatori del Pomigliano di aver battuto il Napoli fuori casa per 1-3.
Altre squadre sponsorizzate dall’industria locale furono l’U.N.A.E.M delle industrie armiere dell’Esercito; l’I.M.M. delle manufattiere meccaniche; la farmaceutica Rivetti; il Dopolavoro Aziendale Navalmeccanica di Castellammare di Stabia; l’Eternit di Bagnoli; la Ferriera Agnano, l’A.E.R.F.ER. Pomigliano della Finmeccanica, di cui parleremo un’altra volta.