Quando l’arte sposa delle finalità sociali, si apre sotto gli occhi di tutti un mondo fatto di azioni ed emozioni, un terreno su cui nascono ed evolvono importanti relazioni, destinate a puntellare un intero percorso di vita. Quando poi ad essere coinvolti sono i bambini, con il loro piccolo grande universo in cui convergono fragilità, disagi e tanta voglia di comunicare, ogni progetto assume una luce particolare. Indagare il mondo infantile e farlo con delicatezza, senza invasività e supportati dalla giusta ricettività, non è certo cosa semplice. Nei muri creati da un vissuto personale gravoso, quei muri resi spesso ancora più difficili da abbattere da un confronto con l’Altro zoppicante e pieno di incomprensioni, si può però scavare un varco. Come? Grazie a persone che decidono di mettere al servizio di chi è meno fortunato le proprie abilità e competenze, finalizzandole ad alleviare il carico incombente di una vita vissuta a metà.
Su questo humus nasce il LABORATORIO CUORE, ideato e portato avanti da quattro anni dall’artista Daniela Morante nel reparto di Cardiochirurgia diretto dal Prof. Carlo Vosa al Nuovo Policlinico di Napoli, con il sostegno della Fondazione Alta Mane. La padronanza degli strumenti creativi ed una personalità estremamente sensibile, nella figura di Daniela Morante, si uniscono così per dar vita ad un iter didattico, ma con una forte componente emotiva ed emozionale, che cresce progressivamente con l’età. Angoscia, noia, apatia: tutte queste sensazioni negative vengono prese e trasformate in qualcosa di positivo grazie all’ausilio dell’arte.
Ma facciamoci spiegare meglio proprio dalla Morante.
Come nasce questo progetto e quali sono i suoi strumenti?
Il progetto nasce da me in quanto artista che ad un certo punto, stanca di stare nello studio e nelle gallerie, ho cercato una frontiera più sociale e solidale col mondo. Mi è stato così proposto di sperimentare la mia arte in una situazione di disagio come l’ospedale: ho preso i miei strumenti che sono pennelli e colori e ho messo al servizio di questi bambini malati il mio sapere artistico. La risposta dei bambini è stata ed è bellissima e sempre nuova. Li faccio lavorare con acquerelli e chine in maniera astratta, per cui in questa immediatezza espressiva loro riescono a rappresentare benissimo tutto il non verbale, le cose che non si riescono a dire, le emozioni.
Chi sono questi bambini? E come si è evoluta col tempo questa interazione così particolare tra voi?
Piano piano questa esperienza è diventata una certezza, sia per i consensi e i rimandi che ho avuto, sia perché spesso l’arte viene usata dagli psicologi nei contesti terapeutici . Io ho lavorato prima con i bambini leucemici per dieci mesi al Pausilipon, poi sono passata ai cardiopatici che rappresentano un mondo molto delicato. Sono per la maggior parte cardiopatici congeniti quindi parliamo di bambini che subiscono la prima operazione quando nascono. Negli anni devono tornare a fare controlli ma anche altri interventi per cambiare i tubicini perché intanto il cuore cresce. Il loro rapporto con l’ospedale si protrae quindi nel tempo, e anche se sono bambini molto piccoli, c’è sempre in loro la consapevolezza del trauma subito con l’operazione.
L’utilizzo dei colori consente loro di spostare l’attenzione dall’aspetto traumatico dell’ospedale a quello legato alla pittura che nei contesti scolastici e familiari si utilizza raramente. Anche quelli che per i genitori sono solo scarabocchi vengono visti sotto una luce differente. A tal proposito ho elaborato una brochure che li può aiutare a dare un senso ai disegni dei figli: così i genitori, che io stimolo e coinvolgo sempre nell’attività dei bambini, riescono a creare con loro una relazione diversa. I bambini vedono nella pittura un motivo d’orgoglio e un momento per sentirsi uguali a tutti gli altri, nonostante il loro aspetto macilento e l’impossibilità pratica di concedersi attività per gli altri normali come giocare a pallone.
Quest’attività di arte curativa si esplica puramente nel disegno o c’è altro? Ha dei collaboratori?
Spesso il momento creativo viene seguito da quello del racconto. Molti bambini, al di là del piacere del fare, esprimono ad esempio la rabbia per essere stati offesi a scuola, magari per le evidenti cicatrici, il disagio di sentirsi soli, la paura che hanno del buio, e così via, il tutto senza mai essere forzati. Questo relazionarsi in totale libertà diventa quindi un modo per trasformare in un “clima da salotto” un momento di grande ansia in primis per i bambini e poi per i genitori che li accompagnano nelle visite. In parole povere, quello che deve essere generato dalla pittura è amore, vita, accoglienza.
Per quanto riguarda i collaboratori, ho un assistente palestinese perché il primario, il prof. Carlo Vosa, si occupa anche di scambi con il Medio Oriente. Ci arrivano un sacco di bambini dalla Siria, dai campi profughi, tutti con storie intensissime, durissime. E mentre i bambini con famiglie agiate affollano i centri specializzati del Nord, qui da noi, nonostante stiamo parlando comunque di un reparto di eccellenza nato nel 2008, arrivano i bambini più poveri, dal livello economico, sociale e culturale bassissimi. Grazie però ad un primario da sempre attento al concetto di umanizzazione, queste attività sono sempre state fortemente volute.
Possiamo dunque giungere alla conclusione che l’arte sconfina nella cura. Lei pensa che l’arteterapia possa col tempo venire ancora più concretamente accreditata?
All’estero l’arteterapia negli ospedali è una realtà piuttosto consolidata e di gran misura più avanti di noi. Il messaggio che mi sento di dare è che bisogna puntare sempre di più i riflettori su queste attività, non tendendo mai a banalizzarle. Con la fondazione ABIO Italia Onlus, attiva nel ridurre il disagio che affrontano i bambini, gli adolescenti e i genitori in ospedale, al momento dell’impatto con la struttura e durante la degenza, fondazione dal quale ho ricevuto tra l’altro il Premio all’Infanzia 2014, stiamo progettando un corso di formazione per i volontari che intendono proseguire questo discorso dell’arte da ospedale. Dopo cinque anni, mi ritrovo un bagaglio di 5mila bambini per cui ho maturato un’esperienza sul campo. Insomma io sono la dimostrazione che si può fare.
E noi ci sentiamo di aggiungere: che si deve fare!