Certo che sono lontani i tempi in cui la letteratura si nutriva dei Rimbaud, dei Mallarmé, dei Baudelaire, dei Barthes, ecc., fino ad esplodere attraverso i paradigmi di una scrittura inventariale, originale. Ovviamente qualche schiarita e qualche eccezione son pur venute fuori. Ma se dovessimo trarre un bilancio dagli ultimi libri in circolazione, sicuramente saremmo costretti a decretare, nostro malgrado, scarse o nulle novità, fisime sopraffine che trovano ristoro in false originalità. Le caratteristiche predominanti della letteratura italica sono correlate da un certo spaesamento e da una folle corsa verso i tempi andati, che sviluppano inevitabilmente contaminanti linguaggi apodittici. Proposte diametralmente opposte coesistono in perfetta armonia, sfociando nelle bramosie del mercato, della mercificazione, dell’interesse materiale. Il che ci indica che le aperture plurime a un mondo creativo abitano altrove. Per non parlare poi di una specie di psicosi, molto usata dai poeti e scrittori nostrani, da un po’ di tempo a questa parte: quella del ricordo, del passato. Si tratta di un ricordo a volte accompagnato da un gioco ludico, ma anche da una verve irrazionale, simbolica, che approda indefessa sulle rive dello scontato, del dejà dit o dell’eterno inarrivabile.
Facendo nostre momentaneamente le parole del prezioso Barthes di Miti d’oggi, si potrebbe aggiungere, se ancora ce ne fosse il bisogno di aggiungere qualcosa, che il testo rischia di fissarsi, di ripetersi, tramutandosi in testi opachi, degenerando infine in chiacchiera. Il comune denominatore: pensare attraverso la storia o la memoria; insomma, pensare al passato remoto, il che vuol dire ripetersi.
In tutti questi anni, la letteratura ha attraversato momenti complessi e momenti meno complessi; posizioni che spaziano tra un’adorazione del sistema merceologico e una posizione diametralmente opposta, che della prima demarca le caratteristiche unidirezionali dell’establishment, pragmatiche tautologiche clientelari autoriali e autoreferenziali. E così, da una possibile applicazione al metodo della diversificazione e del movimento, finisce con l’apporre impostazioni e imposizioni statiche e descrittive spingendola (la letteratura) nella caldera dell’inutile dire, concernenti alla strategia del tipo “potrei ma non voglio”.
A dire il vero, manca una opposizione univoca che salvi dalla chiara impronta conservatrice e fascista del linguaggio, dalla spiegazione dei fatti come attività economica, subdola e spettacolosa: difendere i propri interessi è il solo credo che conti nella cultura di oggi, come del resto nella politica di imprenditori e voltagabbana. Insomma, la letteratura sempre e comunque condizionata dall’equazione “prodotto=denaro”. Se si analizza bene questo assunto, essa non può che ricercare le proprie problematiche in aree che, anche se alimentate da qualcosa che sembra diversa, inconcepibile incomprensibile, come rottura, linguaggio nuovo, sperimentazione, diventano l’espressione di un punto dove dimora la rivalutazione, la verifica delle possibilità.
– Negli ultimi 50-60 anni la letteratura è stata creata su due binari diversi, antitetici, contrapposti. Ed è il caso di ricordar le origini di questa “dispersione”, i poli di esplosione: l’estetica, da una parte (rif. a Le ceneri di Gramsci, di Pier Paolo Pasolini, undici poemetti pubblicati nel 1957, dove si spinge a vedere i limiti del marxismo gramsciano) e l’ideologia (rif. Laborintus di Edoardo Sanguineti, pubblicato un anno prima del volume di Pasolini). Il primo verso un effimero rapinoso, un carattere elegiaco misticheggiante e redditizio, sia pure sperimentale della realtà; il secondo verso l’impoetico, il deforme, il demistificatorio, l’antisacrale, il plurilinguismo, l’antagonismo, la contraddizione che si afferma poi soprattutto negli anni ’80 per contrastare il qualunquismo e l’onda lunga della “parola innamorata” di se stessa, del passato, della facile fruizione e intima. Il che comporta[va] sia una sovrapposizione esautorativa della vera funzione poetica (le guerre servono – ammesso che servano – per le spartizioni di territori, per le grandi strategie politiche ed economiche. La letteratura, che è sempre stata il contrario di una distruzione o di un mantenimento, dovrebbe starne fuori) sia una condizione di instabilità che, inconsciamente alimentano un sistema minaccioso e prepotente: la catastrofe. Dirà Angelo Guglielmi qualche decennio dopo, in Vero e falso (Feltrinelli, 1968) che «pensare che il mondo stia da una parte e la letteratura dall’altra è all’origine di tutti i misfatti letterari verificatisi negli ultimi anni [divenendo oggi] una pura e semplice descrizione che grazie al suo tono finto neutro e falso illuminato pretende di essere rivoluzionaria».
Questi aspetti divergenti del tortuoso cammino della letteratura, sono scaturiti in primis dal comportamento della società e della politica fagocitanti nei confronti di tutto ciò che appare nuovo, deforme, nel solco dell’assunto “se non posso distruggerti allora ti controllo”, lasciandoti addirittura entrare nelle stanze che contano che diventano poi la tua prigione. Si pensi ai Novissimi, la neoavanguardia degli anni ’60 (Sanguineti, Balestrini, Porta, Giuliani, Pagliarani): una volta che gli consentirono di occupare posti importanti nell’industria culturale, la loro forza dirompente per aprire la strada al nuovo, si arrestò inevitabilmente, andando ad occupare uno spazio, sia pure privilegiato, nei musei e nelle biblioteche., alimentando un sistema produttivo (si fa per dire!) che genera inevitabilmente stereotipi e linguaggi ripetitivi. È da questo punto, da questa insolente pretesa occorre interrogarsi; una domanda si pone inevitabile: in base a questa invisibile guerra che ha mietuto vittime illustre, la letteratura è fatta per il potere o per altro?
– Non vi è dubbio che ultimamente la letteratura è più votata al potere di quanto non lo sia stato in passato. Di conseguenza viene ad essere vistosamente influenzata e non solo nelle scelte di fondo della sua ricerca, ma anche nel metodo o nei metodi, nelle intuizioni operative. Se la logica indica nel concetto di ampliazione, quel recepire e crescente potenziamento delle masse, il nuovo – quindi – non può essere escluso da questa prerogativa ma esserne il fulcro del modello di un attributo innovativo, e la letteratura “istituzionale”, non può non tenerne conto di questo bisogno di mutamento. Se si ampliano gli spazi interregionali per adeguarvi le nuove ondate di crescita, non vedo perché da questa esigenza la letteratura debba restare fuori.
In termini sia pratici che teorici, l’odierna fase post-postmoderna ha gettato le basi per un duraturo mantenimento del potere e delle strategie passatiste e ipnotiche che hanno scalzato dal campo socio-culturale la contrapposizione, il pensiero contradditorio, in un gioco dove le cose che non si conoscono vengono fatte passare per cose che si conoscono, avvolte di arroganza e di imposizione. Insomma, stiamo divorando il futuro prima che sorga. Ovviamente, la non-conoscenza è alla base di questa fase caotica della letteratura. Personaggi del jet-set che si fanno scrivere libri sulla loro vita da giornalisti, con scrittura da giornalismo, o dai “ghostwriter” (i cosiddetti “scrittori negri”, “scrittori fantasma”, “scrittori ombra”), che saranno poi pretesti per organizzare talk-show dove quando va bene si arriva alla rissa verbale, a chi alza di più la voce, ovviamente solo per far spettacolo. Un volume per far spettacolo. Lo scopo e quello di inocularci il fatto che la letteratura (non esaurita affatto) non apre mondi nuovi, non guarda in avanti, ma è un trampolino di lancio verso il divismo, un mantenimento di quel proprio orticello che non dà più frutti su cui testardamente si continua inutilmente a seminare; un automatismo che sprigiona il miraggio di un posto al sole; non già il divismo ci attende, ma il vuoto dell’essere.