Il 31 marzo, finalmente, hanno chiuso gli OPG in Italia, ed ironia della sorte, al teatro Bellini va in scena Qualcuno volò sul nido del cuculo adattato sapientemente dallo scrittore Maurizio de Giovanni e con la regia di Alessandro Gassman.
La trama, conosciutissima, a teatro fu data da Dale Wassermann nel 1971, poi la fortunata versione cinematografica con protagonista con un super Jack Nicholson. Questa volta la storia viene trasportata sullo sfondo di una scenografia completamente differente, distante migliaia di chilometri da quella originale: Siamo all’ Ospedale psichiatrico di Aversa nel 1982, laddove la nazionale italiana vinse i mondiali. Randle McMurphy diventa Dario Danise, irriducibilmente napoletano, e l’infermiera Ratched si trasforma in Suor Lucia.
Prima una conferenza stampa, con Maurizio de Giovanni, il regista Alessandro Gassman e i due attori Daniele Russo ed Elisabetta Valgoi poi tutti al teatro a ricevere i meritati applausi. Dalla prima si è, immediatamente capito, che sarebbe stato un successo. Si è dimostrato con certezza che il gioco di squadra paga e viene sempre riconosciuto. Ognuno nel suo ruolo come spesso dice De Giovanni, tifosissimo del Napoli sapendo perfettamente che in campo vanno i giocatori che devono dimostrare tutto il loro valore.
Sul palco si avverte subito il conflitto tra le follie dei pazienti, i deliri di Suor Lucia, autrice di regole infrangibili e soffocanti. Chi nell’ospedale psichiatrico è volontariamente rifugiato cerca di scappare proprio dalle regole di una società opprimente, che soffoca gli istinti vitali e il diritto alla felicità di quelli che vengono definiti “matti”. Il protagonista Dario Danise, affetto da disturbo istrionico della personalità, attacchi di collera e sessualità compulsiva. È facile immaginare che lo scontro tra lui e la severa religiosa sarà inevitabile e che l’internato dovrà ritrovarsi a tener testa alle provocazioni e alle prese di posizione di entrambi.
Gassman, regista ed ambasciatore per l’UNHCR, si concentra sul grande tema vero protagonista dello spettacolo: la libertà. Danise è un cane sciolto, nato dei bassifondi e più volte incarcerato, sovverte di continuo le leggi create dalla severa Suor Lucia, madrina di un ordine perfetto e inattaccabile, in un disperato anelito di indipendenza.
Gli attori hanno la possibilità di improvvisare liberamente, senza porre schemi prefissati e razionali, permettendo così una completa spontaneità emotiva. Alla fine, il dramma, la tragedia. Nelle case di cura o manicomi o OPG si attuava una pratica terribile: la lobotomia: era un intervento conosciuto anche come leucotomia. Il risultato era il cambiamento radicale della personalità. Il protagonista lo riceve e quindi, restituito alla scena senza anima, come vegetale. I compagni di sventura, solidarizzando con Dario Danise e capendo che si tratta di uno stato, purtroppo, irreversibile, lo sopprimono per pietà.
Applausi a scena aperta, come già detto, anche se lo spettatore lascia il teatro riflettendo sulle atrocità che spesso si commettono in nome di una presunta legislazione vigente ed un potere assurdo nelle mani delle autorità.