Regno Unito. È qui, nella sede dell’Engage Youth Empowerment Services di Wolverhampton che è iniziato ieri l’ultimo incontro previsto dal programma EPAEMSI che durerà fino al 9 giugno. Si tratta di un progetto, European Partnership on Adult Education and Mobility for Social Inclusion (EPAEMSI) co-finanziato dalla Commissione Europea tramite il Programma di Apprendimento Permanente, che mira a promuovere l’inclusione sociale di gruppi sociali “svantaggiati”, di soggetti borderline che vivono una condizione di esclusione sociale. Il progetto è iniziato due anni fa e ha visto la partecipazione di sette organizzazioni partner provenienti da Italia, Spagna, Malta, Romania, Polonia, Slovenia e Regno Unito che si sono impegnate nell’organizzazione di attività orientate all’inclusione sociale attraverso l’educazione. In quest’ultimo incontro le organizzazioni avranno modo di concludere il percorso, confrontandosi sulle metodologie educative adottate.
Ma per avere un quadro più completo del progetto siamo andati da Mario Luppoli dell’Associazione “Cantiere Giovani”, partner italiano coinvolto nel programma EPAEMSI.
Mario L. che ruolo svolge all’interno dell’associazione “Cantiere Giovani?
Faccio parte del dipartimento che si occupa delle attività interculturali e internazionali: dai corsi di italiano agli immigrati al volontariato europeo, ai percorsi di educazione non formale e permanente. Tra queste iniziative c’è anche il progetto EPAEMSI, sostenuto dal Lifelong Learning Programme della Commissione Europea.
Il progetto EPAEMSI è indirizzato a persone svantaggiate che vivono uno stato di esclusione sociale. Che tipo di persone vi siete trovati di fronte?
Il progetto è indirizzato a persone che vivono in una condizione di esclusione o di svantaggio. Ma ogni persona ha risorse e competenze in alcuni ambiti e vive svantaggi in altri. Non ci troviamo mai dinanzi a “persone svantaggiate”, anche se spesso l’espressione che viene impiegata è questa. Si tratta di donne e uomini con le loro ricchezze e le loro difficoltà, che stanno vivendo una condizione di svantaggio. Troppo spesso l’immagine di queste persone è assorbita da quel contesto che crea il disagio, ma dobbiamo resistere a questa semplificazione.
Quale la loro età e provenienza?
In EPAEMSI vengono coinvolte persone di tanti contesti diversi. Sono tutti adulti, perché il progetto è parte di un programma europeo di apprendimento permanente, che vuole cioè contribuire a una formazione per tutta la vita.
C’è un caso che l’ha colpita particolarmente?
La cosa più interessante è che non abbiamo visto, né in Italia né all’estero dai nostri partner, “casi” che commuovono, ma sempre persone straordinarie, con minori o maggiori opportunità, ma con una grande ricchezza umana, che è la cosa più autentica per definirle. Il nostro impegno è indirizzato a questo, partecipare a dare a questa ricchezza spazi, tempi, risorse per essere espressa e valorizzata.
Da dove nasce l’esclusione sociale?
Noi pensiamo che gli individui non siano atomi e che la società non sia una loro sommatoria. Potremmo dire che la società è una rete di relazioni, e che ognuno di noi è qualcuno in quanto parte dinamica di questi rapporti. Ma per essere autentici i rapporti tra individui non devono essere schiacciati da privazioni economiche, da svantaggio geografico, da diritti calpestati o che semplicemente non possono essere esercitati. L’esclusione nasce principalmente da un modello di società basato sulla ricchezza materiale, sul consumismo e sulla competizione. I pochi che risultano vincenti lo possono fare escludendo, a vari livelli, gli altri. E alcuni, tanti, troppi, sono esclusi così radicalmente da dover affrontare la vita come se fosse un problema. Questo modello comporta valori, ideologie, pratiche che rafforzano quest’esclusione.
Come crede che possa essere migliorata l’inclusione sociale di queste persone?
Ci sono vari livelli su cui si può intervenire contro l’esclusione sociale. Tra quello che possono contribuire a fare le organizzazioni non governative e la società civile c’è sicuramente una dimensione educativa.
Nel progetto si fa riferimento all’educazione non formale come mezzo per promuovere l’inclusione. In che modo?
Vedete, l’esclusione viene accompagnata da due fenomeni. Il primo è quello di restare imprigionati in una immagine di sé. Quante persone finiscono, appunto, per sentirsi “svantaggiate”?
Quando questo scatta, si vive quel ruolo, la comunità lo riconosce e lo potenzia, e non lo si rimette in discussione. L’educazione non formale può invece portarti fuori da quella visione di te e iniziare a cambiarla: le identità non sono statiche, ma dinamiche.
Il secondo fenomeno è legato a questo. Tutti abbiamo competenze, ma non sempre le sappiamo identificare e spendere. L’educazione non formale ce le fa scoprire, gli altri possono imparare da te e riconoscono le tue qualità, hai la possibilità di svilupparle. A quel punto hai risorse che possono cambiare concretamente la tua vita. Non ci aspettiamo mai miracoli, naturalmente, ma cambiamenti reali sono possibili e con l’educazione non formale e permanente si possono sperimentare.
Che tipo di attività avete organizzato nella sede dell’Associazione a Frattamaggiore?
Il progetto si basa sull’approfondimento di un partenariato europeo tra organizzazioni che intervengono in condizioni di disagio. Ogni realtà mostra alle altre una buona pratica, cioè una sua attività che funziona bene per coinvolgere persone, renderle attive, cambiare la loro posizione nella comunità locale, incidere su tutta la città. A Frattamaggiore le delegazioni degli altri Paesi hanno sperimentato un percorso su tre tappe. Innanzitutto si sono costituiti dei piccoli gruppi, eterogenei dal punto di vista culturale, nazionale e di estrazione sociale. Con i diversi punti di vista di cui erano portatori, i gruppi hanno girato per Frattamaggiore individuando e fotografando gli ostacoli alla circolazione di pedoni e carrozzelle.
E’ incredibile a quante cose ci abituiamo e come lo sguardo di una persona di un altro Paese ci aiuti a riscoprire nella loro inciviltà!
Il secondo step è stato raccogliere, selezionare e organizzare le fotografie, coinvolgendo cittadini attorno a questo lavoro, per poi presentare assieme, con centinaia di firme, una petizione popolare all’Amministrazione locale per cambiare questo stato di cose.
Vedi, è un circolo che parte dall’educazione non formale, si alimenta di intercultura, realizza un’azione pratica di sensibilizzazione, coinvolge altri e crea partecipazione, culmina in un’azione di democrazia diretta che può migliorare la città.
Tutti i nostri partner hanno intanto sperimentato questa iniziativa nelle loro città: nel prossimo incontro si condividerà una valutazione di queste sperimentazioni.
Il gruppo italiano si recherà in Inghilterra per l’ultimo incontro. Cosa si aspetta? Sa già quali attività si svolgeranno?
Si, l’ultimo di questi scambi di buone prassi, il settimo, è dal 6 al 9 giugno in Inghilterra, presso l’associazione “Engage Youth Empowerment Services” di Wolverhampton. Ci saranno tutti i partner: Cantiere Giovani dall’Italia e poi le organizzazioni da Spagna, Malta, Romania, Polonia e Slovenia. L’Engage Youth Empowerment Services presenterà nei dettagli il proprio lavoro, le sue metodologie e farà sperimentare una delle loro attività: al ritorno del gruppo magari ti racconteremo cosa hanno realizzato! In ogni caso, poi replicheremo quell’attività a Frattamaggiore, per verificare che valore aggiunto può apportare qui da noi: un modo per migliorare sempre quello che offriamo al territorio.
Il progetto è iniziato due anni fa; crede che siano stati fatti passi in avanti da allora rispetto al fine del progetto ? Quale il feedback che ha ricevuto e sta ricevendo dalle persone interessate? E in ultima analisi, crede che in Italia siano presenti molti casi di esclusione sociale e come crede possa essere affrontato il problema?
Al momento hanno preso parte direttamente alle attività 180 persone di cui 24 italiani, ma abbiamo coinvolto più ampiamente diverse centinaia di cittadini. Abbiamo conosciuto organizzazioni, metodologie, attività che abbiamo portato sul nostro territorio. Un vero arricchimento per tutti! C’è qualcuno che ha preso per la prima volta un aereo, qualcuno che si è impegnato ad imparare l’inglese, c’è chi ha affrontato le proprie paure e insicurezze e ne è uscito trasformato. In molte persone è scattato qualcosa: la voglia di viaggiare e confrontarsi con gli altri, una capacità di ripensare a se stessi, alla propria vita, ai progetti che possono essere portati avanti. C’è una speranza che però diventa concretezza, una cosa che si può fare. Questa fiducia nelle proprie possibilità è straordinaria ed è una chiave di quel cambiamento più generalizzato che potrebbe gestire e superare un disagio che in Italia si avverte in maniere sempre più ampia e diffusa.