Quest’anno ricorrono i trenta anni dalla morte di Primo Levi, (Torino 1911-1987), uno degli scrittori più influenti del nostro tempo; nella nostra letteratura il testimone più forte della tragedia che ha segnato il XX secolo: l’olocausto. Il racconto di questa drammatica esperienza non ha solo un valore di testimonianza ma anche un alto valore letterario.
Levi nella sua famosa trilogia: Se questo è un uomo (1947), La tregua (1963), I sommersi e i salvati (1986), oltre a raccontarci con estrema lucidità di scrittura, senza nessun compiacimento né pietismo, la straziante esperienza di Auschwitz e la sua successiva liberazione e marcia per mezza Europa con i soldati dell’Armata Rossa che lo avevano liberato dal lager, ci porta a indagare dentro la natura umana nella doppia veste di vittima e torturatore, dove l’efferatezza e la disperazione toccano le loro vette più alte, dove si riconfigura il concetto di “uomo” sia in chi sottomette che in chi è sottomesso. Poco prima della sua morte Levi affermò che solo coloro che non erano sopravvissuti ai lager ne conoscevano veramente l’orrore e in questa affermazione si sentiva l’eco della domanda senza risposta che, come lui, tutti i sopravvissuti a tragedie si fanno, “perche io no?”, interrogativo di cui lo scrittore non seppe mai liberarsi, al punto che molti hanno individuato in questa disperazione dello “scampato alla morte”, di fronte alla fatale sorte di altri, la ragione segreta del suo probabile suicidio.
Levi, che militava nelle Brigate partigiane, fu arrestato il 13 dicembre del 1943 e rinchiuso prima nel campo italiano di Fossoli dove decise di rivelare d’essere ebreo, in quanto come partigiano sarebbe stato immediatamente fucilato. Giunse ad Auschwitz il 26 febbraio del 1944 dopo un viaggio di sei giorni in un vagone bestiame. Nella stazione civile di Auschwitz le SS spogliarono gli ebrei di tutti i loro averi e separarono gli “utili” dagli “inutili”, caricando questi ultimi su falsi camion della Croce Rossa. In mezz’ora il gas uccise donne incinta, neonati, anziani, malati. Gli altri vennero condotti allo judenlager di Auschwitz, dove li denudarono, raparono, tatuarono con un numero e vestirono con un’uniforme a strisce che aveva cucita addosso la stella di David. Lo scopo della “soluzione finale” di Hitler non era solo lo sterminio, ma anzitutto la distruzione dell’identità e della dignità dei prigionieri, in modo da impedirne qualsiasi ribellione fino a che servivano al lavoro nei lager. Per questo oltre a lavori pesanti venivano dati loro compiti ripetitivi e privi di senso che solo ne fiaccavano lo spirito. Ogni tentativo di sopravvivere nel lager era necessario e accettato da tutti, ma senza perdere la propria integrità e senza alleanze col nemico che non fossero il lavoro a cui si era obbligati.
Proprio nel suo utlimo libro della trilogia, il saggio dal titolo “I sommersi e i salvati”, partendo dalla sua personale esperienza e confrontandola con esperienze analoghe della storia recente come i gulag sovietici, Levi rivela i meccanismi che creano quella che lui chiama “la zona grigia” tra oppressori e oppressi, dove si fa strada la corruzione economica e morale di chi è prigioniero di un sistema concentrazionario e cerca scampo da una parte e utilità dall’altra.
Levi si rese immediatamente conto delle impietose condizioni del campo e trovò nella sua laurea in chimica il mezzo per ottenere un lavoro meno gravoso. Alla fine del 1944 venne esaminato da una commissione incaricata di reclutare chimici per la Buna, fabbrica tedesca che produceva gomma sintetica. Ottenne il posto e questo gli permise un lavoro meno faticoso e la possibilità di contrabbandare materiale da interscambiare con cibo.
Nel gennaio del 1945, immediatamente prima della liberazione del campo da parte dell’Armata Rossa, si ammalò di scarlattina e venne ricoverato nell’ infermeria sottraendosi così per fortuna alla marcia di evacuazione da Auschwitz, nella quale quasi tutti morirono.
Nel libro “Il sistema periodico” del 1975 il chimico e lo scrittore si intreccieranno indissolubilmente in 21 racconti, ognuno definito con un elemento della “Tavola periodica” alla quale la storia narrata è collegata.
“La nobiltà dell’uomo, acquisita in cento secoli di prove e di errori, era consistita nel farsi signore della materia, e io mi ero iscritto a Chimica perché a questa nobiltà volevo mantenermi fedele. Vincere la materia e comprenderla, e comprendere la materia è necessario per comprendere l’universo e noi stessi: e quindi il Sistema Periodico Di Mendeleev […] era una poesia.”
Il 19 ottobre 2006 la Royal Institution del Regno Unito scelse quest’opera come il miglior libro di scienza mai scritto..
I temi, dentro una cornice autobiografica, sono numerosi, riferiti alla vita professionale di chimico, cominciando dai primi esperimenti ai primi impieghi, dalla vita nei lager nazisti ai racconti – veri o di fantasia – legati al mestiere di chimico: la vita dell’autore vista attraverso la cartina di tornasole della chimica.
I libri di Levi sono tutti un monumento alla memoria e oggi più che mai, quando l’era dei testimoni della Shoah sta per concludersi, dal momento che gli ultimi sopravvissuti e gli ultimi carnefici van morendo poco a poco, la necessità di questa memoria appare, nell’imbarbarimento generale, imprescindibile a qualsiasi civiltà che voglia ancora chiamarsi umana. Levi analizza la tendenza umana a dimenticare, a rifiutare l’esistenza del lager e a sminuire i racconti dei testimoni e ci rivela che gli stessi colpevoli di tanto orrore avevano previsto questo rifiuto e ripetevano continuamente ai prigionieri che nessuno avrebbe mai creduto ai loro racconti, anche perché comunque tutte le prove sarebbero state distrutte, cosa che per fortuna non avvenne se non in piccola parte. La maggior parte dei materiale sui campi fu ritrovato e utilizzato per imbastire il Processo di Norimberga. Levi afferma anche che l’intera Germania era a conoscenza di quanto accadeva nei lager, ma la maggior parte preferì fingere di non sapere. Per questo la traduzione di “Se questo è un uomo” in tedesco era particolarmente significativa per lui. Uno degli obiettivi era far conoscere alla Germania ciò che si era fatto in suo nome e di fargliene accettare una responsabilità almeno parziale
Per Levi la memoria dell’offesa subita nel corpo e nello spirito dai prigionieri dei campi si scontra con la fallace memoria umana che viene ricostruita arbitrariamente: negli oppressori totalmente cancellata o rinventata a proprio favore, riducendo le proprie azioni efferate a semplici atti senza colpa, in questo modo molti complici dello sterminio si sono salvati dai loro stessi sensi di colpa; negli oppressi per sfuggire a quei terrificanti ricordi e dimenticare i dolori, le ingiustizie, le umiliazioni subite e spesso la perdita della propria dignità umana.
Nel modo stesso in cui Levi narra, contenendo le proprie passioni e spietatamente mostrando i fatti, è evidente che si propone di rappresentare non tanto la sua esperienza personale quanto quella dei suoi compagni e in generale, la vita concreta del campo con le sue oppressive regole. In un’intervista dichiarò: “«C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo.»
Primo Levi per molto tempo, dopo il suo ritorno in patria, lavorò come chimico, anche perché i suoi libri al principio parvero troppo crudi a un pubblico che voleva solo dimenticare gli orrori della guerra. Ritornò all’arena letteraria solo dopo che la pubblicazione di “Se questo è un uomo”, da parte della Casa Editrice Einaudi, ebbe successo, rivelandogli che i tempi erano ormai maturi per togliere ogni velo alla Storia.
Ma Levi non è solo testimone della guerra e della repressione nazista, né portatore, come si potrebbe credere, di un pessimismo esistenziale totale. La sua scrittura ha spaziato su altri temi sia in romanzi che in racconti.
Fin dagli anni sessanta Levi pensava di scrivere sul mondo del lavoro. L’origine de “La chiave a stella” si trova nel racconto Meditato con malizia pubblicato su La Stampa nel 1977, che diventerà il primo capitolo del libro. Nel romanzo si riflettono le esperienze e gli incontri dell’autore, che pochi anni prima aveva compiuto diversi viaggi di lavoro a Togliattigrad.
Ne La chiave a stella, romanzo pubblicato nel 1978, che rinnova il filone della letteratura industriale in voga negli anni Sessanta e col quale vince il Premio Strega del 1979, il lavoro è una condizione dove l’uomo si autoidentifica in positivo: l’uomo che fa e agisce, realizza se stesso e attraverso il lavoro nobilita anche la sua parte spirituale.
Il protagonista del romanzo è Libertino Faussone, detto Tino, operaio specializzato nel montaggio di ponti, tralicci e gru, che racconta casi ed eventi tratti principalmente dalle sue esperienze di lavoro; i colloqui tra il narratore e Faussone avvengono in una città senza nome dell’Unione Sovietica, sul basso Volga, dove entrambi si trovano per lavoro e si sono incontrati. Tino rivela una profonda conoscenza degli uomini e una grande capacità di riflettere e interpretare i fatti. Viaggia molto, perché ha scelto di non essere sedentario, è una sorta di personaggio epico che lotta contro le forze della natura con il solo bagaglio delle sue esperienze e delle sue abilità. Faussone viene inviato a lavorare in giro per il mondo, dall’Alaska all’India, dall’Africa alla Russia, dove affronta con entusiasmo le più disparate avventure e la durezza del lavoro, sempre con i suoi attrezzi da montatore e la fiducia nelle proprie capacità. La citazione finale del libro, da Tifone di Joseph Conrad, ci dà la chiave di lettura del personaggio come testimone di una vita complessa e risolta.
In queste pagine Primo Levi celebra il lavoro “vero”, con una frase significativa: “Se si escludono istanti prodigiosi e singolari che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono”.
Per questo La chiave a stella è un romanzo ottimista, primo romanzo di invenzione dove Levi dimostra una straordinaria fiducia nell’uomo.
Chi ha conosciuto questo novello Dante che ha attraversato il più angosciante inferno moderno e ha avuto il coraggio di raccontarlo, si è sorpreso di vedere che l’uomo, lucido, amabile, disponibile, capace di ironia, era all’altezza dello scrittore.