Il poeta che andiamo ad intervistare è Renato Casolaro, napoletano del 1950. Laureato in Lettere Classiche. Dopo un periodo di precariato nella scuola, entra nei ruoli dello Stato lavorando come bibliotecario nella Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Napoli dal 1982 al 1996, quasi sempre al Museo di san Martino, dove si è occupato dell’Archivio Storico del Museo stesso e della sezione teatrale. Ha scritto note critiche per artisti contemporanei, dietro richiesta del critico d’arte Maurizio Vitiello.Dal 1996/97 ha insegnato nel Liceo scientifico Italiano e Latino. Da parecchi anni, collabora a testi scolastici con la casa editrice Simone, in particolare facendo commenti ai classici.La scuola ha assorbito i suoi interessi per diciotto, partecipando a iniziative di ampliamento dell’offerta formativa, organizzando corsi pomeridiani, in particolare di teatro. Al teatro si era preparato seguendo un corso base all’Area Nord di Renato Carpentieri nel 2005.La sua prima pubblicazione è Lesbia napolitana. Cinquanta carmi di Catullo in napoletano (Istituto Grafico Editoriale Italiano, 1996). Fino al 2015 ha pubblicato solo testi scolastici, anno in cui pubblica un volume di poesia, Trent’anni diVersi (Kairòs Edizioni – “Premio speciale “Unitre Barga” al Premio Pascoli). Nel 2018 pubblica un breve pamphlet, Elogio del fesso (SIGMA Edizioni), che ti mando in lettura. Ha partecipato recentemente all’antologia Molti nomi ha l’esilio, curata da Anna Fresu.Nel 2019 ha rieditato le traduzioni da Catullo col titolo Il resto di Lesbia.Ha tradotto in versi napoletani alcune poesie di Leopardi, Baudelaire, Foscolo, Orazio ed altri, e in esametri “barbari” napoletani il libro VI dell’Odissea, ancora inedite.
Come ti sei avvicinato alla poesia e in particolare alla poesia dialettale napoletana?
Da piccolo amavo imparare a memoria le poesie, ed è naturale che provassi ad esprimere qualcosa in versi. Rigorosamente in italiano, però, perché nella mia mentalità di allora il napoletano, lingua della mia infanzia che si parlava in famiglia, l’avevo abbandonato fin dalla prima elementare per il più “prestigioso” italiano (la lingua di quelli che abitavano ai piani superiori, mentre io abitavo a pian terreno). Dei versi scritti in età adolescenziale non ho conservato nulla perché me ne vergognavo come di un peccato solitario. Solo dopo la laurea in lettere ho cominciato a conservare e a rimaneggiare i miei versi, che però facevo leggere soltanto a pochi amici. Poco più tardi è scattato il corto circuito fra il napoletano dell’infanzia e il latino, la grande scoperta della preadolescenza, ed ho iniziato a tradurre il poeta che mi piaceva di più, Catullo. A sdoganare nella mia mente il napoletano contribuì il ricordo della professoressa del ginnasio, che fra una cavalla storna e un cinque maggio aveva avuto la sagacità di leggerci qualche lirica di Di Giacomo.
Nel tuo essere poeta cosa metti al primo posto?
L’onestà, nel senso in cui la intendeva Saba. Rileggo molto più volentieri il coro della morte di Ermengarda che La pioggia nel pineto. Del d’Annunzio poeta mi piacciono solo alcune liriche della cosiddetta fase della bontà. Il D’Annunzio prosatore è più onesto: il superuomo è destinato sempre alla sconfitta esistenziale.
C’è stato qualcuno che devi ringraziare per averti dato, che so, dei consigli di come muoverti nel tuo percorso artistico?
Molti anni fa sottoposi timidamente alcune mie poesie ad un critico, Luigi Fusco, che mi fu utile perché, pur non scoraggiandomi, mi rese edotto sulle difficoltà che avrei incontrato. Poi conobbi Antonio Spagnuolo, che considero tuttora il mio maestro. Sua è la prefazione alla mia prima e per ora unica raccolta, Trent’anni diVersi, del 2015.
Cosa cerchi nella poesia? Quali sono gli argomenti alla base?
Più che cercare io qualcosa nella poesia, direi che è la poesia che cerca me (e a volte forse mi trova, anche se è poco elegante dirmelo da solo). Scrivere versi nasce da una necessità interiore, espressiva e comunicativa. E gli argomenti possono essere i più vari, dalla vita privata alla politica, alla riflessione sulla poesia stessa, a un concetto filosofico o morale eccetera.
Sappiamo che la poesia si manifesta anche attraverso i vari dialetti che rappresentano le nostre tante e diverse realtà geografiche. Più che in altri secoli, il Novecento ha “figliato” grandi poeti che si sono dedicati anche al dialetto: mi riferisco al grande Emilio Villa, Cesare Ruffato, Achille Serrao, il primo Pasolini, Tonino Guerra, Biagio Marin, Albino Pierro ed altri. Quale differenza esiste tra la poesia dialettale napoletana (ma in questo caso potremmo anche definirla lingua napoletana) e quella in lingua?
I nomi che hai citato già dimostrano che le differenze non riguardano certo la qualità; magari riguardano la quantità, ma è una differenza poco importante. Credo che riguardino piuttosto la cosiddetta “ispirazione”, intendendola, alla Spagnuolo, come l’affiorare in superficie di frammenti più o meno consistenti dei grovigli dell’inconscio, che è la nostra personalità più autentica (e siamo di nuovo a Saba). Di questo tipo di ispirazione fa parte a mio parere il linguaggio poetico, perché in poesia forma e contenuto sono una cosa sola, anzi, parafrasando Pound, la poesia è linguaggio allo stato puro.
Secondo Alessandra Buschi, in un suo articolo dal titolo Il dialetto nel Novecento come lingua della poesia «nel Novecento, troviamo infatti molti poeti che, o per uscire dagli schemi della lingua ufficiale e potersi esprimere in modo più ampio e meno legato alle strutture linguistiche dell’italiano nazionale, o per dar espressione ad una determinata zona oppure per senso di appartenenza, riprendono il dialetto». Le stesse motivazioni valgono anche per te o c’è dell’altro?
Per me il napoletano, come dicevo anche sopra, è la lingua della mia infanzia, nella quale mi piace immergere anche i contenuti che con la cultura partenopea non hanno nulla a che vedere. Il mio è il napoletano dei primi anni Cinquanta, un dialetto più che maturo come lingua letteraria e non ancora contaminato o italianizzato dalla televisione. Ma, a parte le traduzioni da Catullo, non ho pubblicato ancora nulla in dialetto, salvo occasionali incursioni su Facebook.
Oggi il compito della poesia sembra un’autocelebrazione. Sembra che i poeti non abbiano più nemici da contrastare. Troppi poeti della domenica. E tu che poeta sei? Quanto prendi sul serio la poesia?
Per me chiunque si cimenti con la poesia va rispettato e ognuno ha i suoi contenuti, tutti rispettabili al di là degli esiti artistici. Essere in molti non è un limite della poesia, ma una ricchezza, come mi pare che pensi anche un nostro eccellente intellettuale, Eugenio Lucrezi, che sta curando su La Repubblica in queste settimane una bella rubrica nella quale presenta voci poetiche note e non note. Per quanto mi riguarda fatico un po’ a definirmi poeta, nel senso che dalla necessità di scrivere può derivare una responsabilità che mi fa perfino un po’ paura.
Chi è il tuo nemico nella vita e nella letteratura?
Se ho un nemico è il furbo, quello che s’illude di fuggire la morte o glissarvi cercando di scavalcare o sovrastare gli altri. È il senso del mio libriccino Elogio del fesso, che ho recentemente pubblicato e che vado presentando dove posso non per ansia di vendere ma per potermi confrontare con gli altri su argomenti oggi scottanti.
Si sa che molti premi letterari, direi il 90%, sono costituiti ad personam, per amici e con una tassa di lettura per leggere qualche testo. Hai mai partecipato ad uno di essi e che opinione ti sei fatto, quale beneficio può arrecare un siffatto premio?
Ho partecipato a pochi Premi letterari, scegliendo quelli a titolo gratuito o con modesta tassa di lettura. Non so nulla dei meccanismi che regolano tali concorsi, però tre o quattro targhe a casa le ho, e non credo che mi siano state date per suggerimento di qualche amico o parente. Peraltro il giudizio degli altri, e quindi anche un riconoscimento in qualche concorso, può servire solo in alcuni momenti, per darti la certezza (o l’illusione) di essere parte di un contesto culturale, o magari per essere più consapevole del contesto culturale di cui fai parte.
Oggi, con la crisi dell’editoria, pubblicare un volume non è semplice: le grandi case editrici non ti filano se non sei legato alla politica o a risorse economiche; per di più le piccole ti chiedono contributi economici, spesso esosi. Hai riscontrato difficoltà editoriali durante il tuo percorso, ti hanno mai chiesto denaro per pubblicare? Puoi farci qualche nome di editori a pagamento che hai incontrato sul tuo percorso?
Credo che sia difficile fare l’editore. È una attività che deve coniugare due elementi in sé inconciliabili, la cultura e l’impresa. Se un editore chiede a un autore sconosciuto di pagarsi le spese è comprensibile, specie in un settore come la poesia, che notoriamente vende pochissimo; lo è meno se pubblica qualunque cosa purché ben pagata dall’autore. Per quanto mi riguarda, non essendo io un autore noto, sul quale un editore possa contare per le sue vendite, devo pagarmi le spese, e perciò pubblico poco, finanziandomi con libri scolastici (che ovviamente mi vengono pagati).
Che cosa distingue l’uomo dal poeta?
Non credo che vi debba essere distinzione fra l’uomo e il poeta. Io almeno aspiro a una perfetta simbiosi fra i due aspetti. Non è così scontato come sembra: per aspirarvi bisogna che il poeta sia disposto a rinunciare alla notorietà e l’uomo ai suoi interessi spiccioli.
Che cosa ti fa più paura nella vita e nel mondo artistico?
Nella vita mi fa paura dover meritare un giudizio etico negativo, nella scrittura la possibilità di rendermi ridicolo.
È risaputo che al giorno d’oggi si legge molto poco; gli autori, che siano poeti narratori o saggisti, a giusta ragione si lamentano di questa inedia. Tu quanto tempo dedichi alla lettura, quindi alla formazione e allo studio, e quanto alla scrittura?
Non ricordo chi ha detto che da giovani si legge molto e si capisce poco, da vecchi si legge meno e si capisce di più. Non so se sia proprio vero, ma è certo che i momenti di formazione e studio, necessari alla scrittura, non sempre sono distinguibili dal momento della scrittura stessa. Mi capita di dover leggere o rileggere qualcosa per poter mandare avanti uno scritto, e viceversa mi capita di interrompere una lettura per abbozzare subito un’idea che mi è venuta dalla lettura stessa.
Qual è l’ultimo volume che hai letto?
Un bel romanzo, Rosso Velasquez, scritto da un mio amico, lo storico dell’arte Roberto Middione. Ma ti dico anche il penultimo: il saggio di Irene Tinagli La grande ignoranza, un’intelligente disamina storica e attuale sulla competenza dei politici. In questo periodo oscillo fra la saggistica politica di attualità (leggo con grande piacere Marco Revelli) e i libri degli amici, con frequenti spiluccate fra i poeti che amo di più.
Quando ti sei accorto che potevi fare il poeta?
Non me ne sono mai accorto davvero: l’etichetta me l’hanno apposta, bontà loro, gli amici e i pochi lettori, e, come dicevo sopra, la sento come una responsabilità.
Cosa pensi dei libri digitali? Possono competere con l’editoria tradizionale, cioè con quella cartacea e perché?
Il libro digitale è sempre un libro, solo su supporto diverso. A volte immagino come doveva sentirsi un lettore abituato a svolgere papiri che si trovava invece a sfogliare un codice, o un lettore di pergamene davanti a un libro di carta. Ecco, il nostro disagio è nella diversità del supporto, tutto qui. Però il libro di carta non è morto ancora, e per ora lo preferisco, mi è più familiare.
Qual è il tuo rapporto con la politica, con l’ambiente, con i problemi di tutti i giorni? Insomma, come vivi la quotidianità?
In politica vivo il disagio comune a tutti quelli che si sono formati con idee, diciamo, di sinistra. Il mio rapporto con l’ambiente che ci circonda e con la mia quotidianità è quello che mi sono scelto e mi ci adatto, o lo vivo con convinzione.
Trovi difficoltà con l’ambiente letterario in cui vivi e che rapporto hai con i tuoi colleghi campani?
Ho occupato e occupo un posto laterale, un po’ perché non sono un buon manager di me stesso e un po’ per quell’idea di coincidenza, di cui parlavo prima, fra l’uomo e lo scrittore. Ho conosciuto qualche poeta campano, ma poi mi sono lasciato dimenticare per lunghi periodi. Ora ho allacciato, grazie a Facebook, alcune belle conoscenze che in certi casi sono diventate amicizie vere.
Quando non ti occupi di poesia, di cosa ti occupi?
Ho fatto il bibliotecario e poi, per scelta matura, l’insegnante. Ora sono, come amo autoironicamente definirmi, un “intellettuale pensionato”. Lavoro a libri scolastici con una casa editrice, leggo, scrivo, collaboro saltuariamente con un periodico online, svolgo un corso di napoletano per un’associazione culturale, faccio volontariato insegnando italiano agli stranieri, e faccio il nonno entusiasta di una bellissima bambina di nove mesi.
Hai una ricetta per far uscire la poesia dallo stato comatoso in cui versa?
Capisco che, di fronte a un animatore culturale come te, non ho titoli validi per dare sentenze e tanto meno ricette. Ma il mio modesto parere è che la poesia non è morta, e non credo che morirà prima del genere umano. La poesia vive di vita sua, e se oggi non abbiamo più i grandi maestri che hanno caratterizzato le epoche passate, non è escluso che un nuovo Montale o Leopardi possa venir fuori proprio dalle macerie che tu vedi. È vero anche – dal punto di vista della ricezione – che non ci sono più i reading di grande richiamo (con che entusiasmo ci andavo negli anni ’80!), ma l’amore per la poesia serpeggia ovunque, in una miriade di realtà magari piccole ma significative, un po’ come le accademie nel Seicento.
In conclusione: quali programmi hai in cantiere?
Non essendo io un poeta professionista, come si sarà capito, non faccio progetti a media o lunga scadenza. Nei prossimi mesi credo che mi dedicherò a una serie di sonetti in napoletano sui miti antichi. Per ora ne ho una decina, che riguardano vari personaggi come Antigone, Aiace, Ettore, Filottete ecc. Mi piacerebbe arricchire questa piccola galleria per farne poi un libro.