Il poeta che andiamo ad intervistare è Monia Gaita, nata a Imola (BO) il 7-11-71 ma vive da sempre a Montefredane (AV). Giornalista, ha all’attivo le seguenti pubblicazioni: Rimandi (Montedit, 2000), Ferroluna (Montedit, 2002), Chiave di volta (Montedit, 2003), Puntasecca (Istituto Italiano Cultura Napoli, 2006), Falsomagro (Editore Guida, 2008), Moniaspina (L’Arca Felice, 2010), Madre terra (Passigli, 2015). È direttore editoriale di Delta3, collana “Ancoraggi” (narrativa, poesia saggistica e arte). Promotrice culturale, scrive su importanti riviste web e cartacee. È inserita in numerose antologie e testate nazionali online. Diversi sono i saggi dedicati alla sua poesia. Porta avanti nella sua Montefredane, con la Proloco che presiede, il Premio di Cultura “Oreste Giordano”, una manifestazione che vede premiate ogni anno, eminenti personalità del mondo giornalistico, della poesia, della scrittura, dell’arte e della scienza.
Come ti sei avvicinata alla poesia?
Non sono stata io ad avvicinarmi alla poesia. È stata la poesia ad avvicinarsi a me. Ero solo una bambina, credo 11-12 anni, quando ha iniziato a bussare alla mia porta.
Che considerazione hai della ricerca poetica, della sperimentazione di nuove forme poetiche?
Il linguaggio è sempre il prodotto di un’evoluzione con un suo regno abitato dai lessemi. Questi tendono a variare. Ovvio che non tutto ciò che è nuovo risulta fecondo o positivo. Ogni cambiamento non dovrebbe mai smantellare o corrodere l’irreprimibile equilibrio tra pensiero e stigma espressivo, tra contenuto e forma, tra ciò che voglio dire e ciò che dico. Sono favorevole alla sperimentazione. Può profilare un’eccellente matrice di risorse purché non ingabbiata nel cattivo governo dell’artificio e di un’offerta comunicativa volatile e dimessa. Purché non ingabbiata nella supina o sterile accoglienza modaiola di termini colpevolmente e arbitrariamente antipoetici. Dare asilo alle parole allestendo per esse una flessibilità di tinte e architetture, deve incrementarne grazia, volume, spessore e simmetria. Non può ridursi a un’autopoiesi dell’inganno o a slogan pubblicitario in cerca di applausi e di seguaci. Non può bandire o bocciare la classicità come “idea in liquidazione”. Oggi molti lemmi soggiacciono a un pericoloso deficit di rappresentanza. Disseppellirli attraccandoli a una banchina di attualità e risignificazione può palesarsi un’impresa quanto mai fertile.
C’è stato qualcuno che devi ringraziare per averti dato, che so, dei consigli di come muoverti nel tuo percorso artistico?
I poeti amici sono stati preziosi. Grazie a loro la dialettica del confronto mi ha traghettato su una sponda di crescita, su un habitat protetto di consapevolezza, apprendistato paziente e propensione all’ascolto. Nessun tracimare nel copia-incolla emulativo, solo la voglia di declinare l’io poetico in costante bilanciamento tra visione personale e sfida a ridefinirsi, a demolire e riedificare, a cancellarsi e andare a capo, a lambire o recuperare il filo nascosto che regge l’universo.
C’è un sentimento antico nelle tue poesie, un discorso lirico proveniente dalla poesia femminile. Cosa cerchi nella poesia e quali sono gli argomenti alla base?
Non ho mai creduto nella poesia di genere. Se i miei versi contengono un milligrammico nucleo di poesia, non è imputabile a un distinto o separato brand femminile. I temi sono quelli di sempre: l’amore per la vita, il tentativo di decifrarne gli ingranaggi, di ispezionarne la lunga catena di stanze, di nicchie, anfratti ed organismi, di scorgere sulle impennate del dubbio e del deluso, sulle strettoie e le pozzanghere dell’esistenza, un guado, almeno, di salvezza.
Oggi il compito della poesia sembra un’autocelebrazione. Sembra che i poeti non abbiano più nemici da contrastare (la poesia è una lotta, non solo contro se stessi). Troppi poeti della domenica. E tu che poeta sei? Quanto prendi sul serio la poesia?
Oggi vige il libero mercato dei versi. È l’epoca del liberismo poetico, ma si tratta di un mercato atipico, sganciato dalla logica commerciale del guadagno. Il rigoglio in larga scala delle pubblicazioni spesso derapa dall’etica intellettuale, sdrucciola nello svilimento qualitativo, nel delirio della sovrapproduzione. Il pericolo alloggia nella penuria o quasi totale assenza di filtri di selezione per cui si mescolano disinvoltamente grano e loglio. Ne è sgorgata un’immane confusione che ha abiurato alle categorie dell’onestà e del rigore nella letteratura. Oggi chiunque può pubblicare un libro. E purtroppo non esiste alcun vaccino che ci immunizzi dall’insulso, dal banale, dall’ipertrofia dell’ovvio. Senza trascurare che molti editori, pur di sopravvivere, accettano anche proposte di basso livello. Di qui gli spacciatori falsi di poesia, i poeti della domenica che vendono al banco merce scadente e avariata. E puntano a reclutare il consenso, a studiate strategie reclamistiche attraverso cui officiano il rito esibitivo di se stessi. C’è poi dell’ottima letteratura e una nutrita fetta di sana editoria, grande e piccola, a dimostrare che la fedeltà al sapere rimane l’unico investimento capace di dare ossigeno e certezze. Sull’intero sistema grava il fattore tempo. Parecchia scrittura si prostra e soccombe al tempo della fretta. La fretta elevata al cubo è un’impostura distruttiva che sgretola e frantuma i libri nel breve periodo. Pochi sono quelli che resistono.
Io prendo molto sul serio la poesia. La poesia è la persona più seria che mi sia capitato di incontrare. E non mi sento un poeta della domenica. Tra noi non è una conoscenza occasionale. Siamo amanti assidui da più di 30 anni. Nessuno screzio, nessuna incompatibilità. A volte è stata una relazione clandestina; custodiamo parecchi segreti, ma non abbiamo mai litigato per davvero.
Chi è oggi il nemico della letteratura?
I nemici della letteratura sono gli ignoranti che in folte legioni pugnalano il sapere, ipocriti e carrieristi pusillanimi che tramano contro la buona scrittura e quelli che per difendere il proprio coacervo di interessi, di brame e desideri, non lesinano abusi e scorrettezze per scavalcare l’altro, confinarlo ai margini, minarne o affievolirne il raggio d’azione. I nemici della letteratura sono i politici quando soffiano sul fuoco dell’intolleranza, del rancore, dell’omologazione, dell’incivismo istituzionale, delle riforme inutili e nocive. Oggi il pensiero rantola, affossato da aggressività, approssimazione e opachi pregiudizi. La letteratura rifugge i radicalismi sia quelli di sinistra che quelli di destra, e punta a realizzare giustizia, armonia, riscatto. Una politica che soffochi manovre d’apertura e integrazione mobilitando impulsi irrazionali, è dichiaratamente nemica della letteratura. Ma anche la politica degli arresi, degli astenuti, degli apatici, dei conformisti, è nemica della letteratura. La letteratura mette in moto le coscienze, è dissenso, sommossa, fronte avanzato di prospettive e soluzioni. L’umano ghigliottinato o crocefisso alla propria perdita di senso è nemico della letteratura.
Si sa che molti premi letterari, direi il 90%, sono costituiti ad personam, per amici e con una tassa di lettura per leggere qualche testo. Hai mai partecipato ad uno di essi e che opinione ti sei fatto, quale beneficio può arrecare un siffatto premio?
I premi sono progettati da persone. Io stessa con la Proloco di Montefredane che presiedo, ne promuovo uno. Tutto dipende dallo spirito che li informa. Se hanno per tassello il criterio della trasparenza e l’amore per la cultura, possono fungere da privilegiato veicolo e stimolo attrattivo.
Oggi, con la crisi dell’editoria, pubblicare un volume non è semplice: le grandi case editrici non ti filano se non sei legato alla politica o a risorse economiche; per di più le piccole ti chiedono contributi economici, spesso esosi. Hai riscontrato difficoltà editoriali durante il tuo percorso, ti hanno mai chiesto denaro per pubblicare? Puoi farci qualche nome di editori a pagamento che hai incontrato sul tuo percorso?
Le case editrici, non avendo più finanziamenti statali, sono diventate aziende con il precipuo obiettivo di far quadrare i conti. Chi pubblica, tranne qualche eccezione, paga. È utile muoversi con cautela nella rete a maglie fitte del sistema. Da ragazza mi sono scontrata con qualche delusione. Oggi sono attenta e preferisco affidarmi non a stampatori, ma ad editori seri che sostengano nel concreto la letteratura.
Che cosa distingue l’uomo dal poeta?
Il poeta non ha mai una passione defilata. Non vive in regime di neutralità. Nulla di ciò che accade gli è estraneo. Rivolge uno sguardo moltiplicato alle persone e allo spazio che lo circondano. Si fa partecipe dell’essenza e della vitalità del tutto, sprofonda commosso nelle cose. Il poeta coi versi culmina in un ordinamento dinamico e progressivo che afferma in tutta la sua pienezza il concetto del divenire. Non ha scappatoie, alternative o strade laterali in cui poter efficacemente sostare. In poesia ogni parola ha una sua necessità e non può essere sostituita da un’altra. La poesia è, quindi, una via obbligata. L’uomo no: può avere il cuore poco dilatato sull’infinito, può rifiutarsi di interrogare l’assoluto, di recepire il rischio, il vero, la grazia, lo stupore, il nesso indissolubile e intimo con se stesso e con il mondo. Il poeta paga un pesante dazio: scava nelle miniere del proprio io, nel bulicame dei luoghi, ne estrae tracce di luce e si fa carico del dolore del mondo. L’uomo, invece, ha un più ampio ventaglio di scelte e possibilità.
Che cosa ti fa più paura nella vita e nel mondo artistico?
Mi fa paura l’apparenza, la falsa propaganda, il gusto del superfluo, la spersonalizzazione, il disincanto, la rinuncia abulica alla lotta. Nella vita e nell’arte devi credere in ciò che fai, devi metterci passione, entusiasmo, coraggio. Mi fa paura chi diserta dai sogni, chi fracassa i vetri alle vigilie. Io attendo sempre qualcosa. Senza quest’attesa, questa vigilia redimente, vivrei con animo infelice, perplesso e diviso.
È risaputo che al giorno d’oggi si legge molto poco; gli autori, che siano poeti narratori o saggisti, a giusta ragione si lamentano di questa inedia. Tu quanto tempo dedichi alla lettura, quindi alla formazione e allo studio, e quanto alla scrittura?
Oggi si legge sempre meno e forse un giorno sarà l’autore a chiedere l’autografo al lettore. La città dei libri è cinta d’assedio dalle truppe dei dissapienti che curano il vuoto più del pieno, l’effetto più della causa, il corpo più della mente. Leggere costa fatica, implica uno sforzo. Ci si rilassa di più davanti a un reality, a un talk show, alla Playstation, al domestico gossip di Facebook e Instagram. Alla lettura e alla scrittura mi dedico in modo inesausto e ossessivo, scientifico e desultorio, convulso e incontrollato. Sperimento fasi di anoressia e bulimia. Non conosco mezze misure.
Qual è l’ultimo volume che hai letto?
Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez.
Quando ti sei accorta che potevi fare la poeta?
Non me ne sono mai accorta. Se dovessi accorgermene, finirei di scrivere versi.
Cosa pensi dei libri digitali? Possono competere con l’editoria tradizionale, cioè con quella cartacea e perché?
Non remo contro il digitale, ma prediligo i fogli. Mi piace toccare la carta e sottolineare con la penna rossa. Ho l’impressione di appropriarmi delle parole, baciarne la luminosa nudità, stringerla fra le dita. Ma va bene anche l’e-book su computer o cellulare. Un libro è sempre deposito di conoscenza.
Qual è il tuo rapporto con la politica, con l’ambiente, con la tua terra, con la Madre terra, prendendo in prestito il titolo di uno dei tuoi ultimi libri. Insomma: con i problemi di tutti i giorni?
Il decollo materiale e immateriale di un paese scaturisce sempre da un tumulto del pensiero. Ecco perché ritengo che il poeta non debba starsene recluso. Non opera in un campo di detenzione. È un campo senza barriere in cui la dinastia della parola funge da guida contro la barbarie. Io sono attenta alla politica, all’ambiente, alla mia terra. In me batte un doppio fermento: rivoluzionario e conservativo. Vorrei incenerire in un rogo il brutto e l’inautentico, vorrei mantenere luoghi e persone incolumi dal botulino della modernità. Preferisco il vero anche se porta le rughe.
Trovi difficoltà con l’ambiente letterario in cui vivi e che rapporto hai con i tuoi colleghi campani?
Il mondo fenomenico della letteratura non è diverso dagli altri mondi, non è esente da vizi, crepe, bacilli e alterazioni. Con tanti poeti campani ho uno splendido rapporto di stima e affetto. Qualche cecchino non manca, mi tende sgambetti, vorrebbe tumularmi nell’oblio. Ma io non me ne curo. Commisero, lavoro, perdono, vado avanti.
Quando non ti occupi di poesia, di cosa ti occupi?
Cucino, sto con i miei tre figli, passeggio con gli amici, passo diverse ore al telefono, ascolto musica, canto al karaoke.
Hai una ricetta per far uscire la poesia dallo stato comatoso in cui versa?
La poesia è viva. Non è mai morta né sta per morire. La fase comatosa sta dietro le spalle. I morti siamo noi. Siamo noi a dover resuscitare. Siamo noi a dover invertire la rotta: fare poesia solo per la poesia.
In conclusione: quali programmi hai in cantiere?
Ho un cantiere sempre aperto e variabile. Ho provato a licenziare il caos dai miei giorni senza riuscirci. Non l’ho mai congedato abbastanza forse perché insieme stiamo bene. Non so dire quello che farò tra 5 minuti. Per fortuna il desiderio ancora mi sovvenziona con prestiti agevolati e di durata illimitata.