Il poeta campano che andiamo ad intervistare è Daniele Ventre, nato a Napoli nel 1974. Insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell’Iliade (Mesogea, Messina, 2010) e dell’Odissea di Omero (id., 2014). Fa parte della redazione del blog letterario Nazione Indiana. Nel 2012 è uscita il suo libro di versi E fragile è lo stallo in riva al tempo(edizioni d’if). Inoltre ha pubblicato: Verso Itaca (edizioni d’if, 2015); Elegia (Oèdipus, 2017).
Come ti sei avvicinato alla poesia?
Alla poesia mi sono avvicinato poco alla volta. Il primo contatto con la forma-verso è stato ludico, per un gioco uditivo ed evocativo, all’inizio dell’adolescenza. Col tempo si è trasformato nell’intenzione di restituire l’impatto comunicativo della parola poetica da altre lingue, lingue dell’origine, come le lingue classiche. Di qui i primi tentativi di traduzione di Omero e Virgilio, risalenti a quasi trent’anni fa. E in seguito lettura di poesia, traduzione di poeti, produzione poetica in proprio si sono fusi in una sola attività.
Nel tuo essere poeta cosa metti al primo posto?
In realtà è difficile dirlo. Intanto è difficile oggi definirsi poeti, e di conseguenza esserlo. Qualcuno, nel ramo, sta meditando addirittura, forse non senza fondati argomenti, di eliminare il termine che indica sia l’artigianato sia il relativo l’artigiano, visto che “poeta” e “poesia” hanno assunto connotati ambigui e non sempre positivi, in uno spazio letterario in cui tutti vogliono scrivere poesie, e tutti sono pronti ad aggredire, per una ragione o per l’altra, con motivi più o meno legittimi, chi si azzarda a farlo. Ciò detto, posto l’interrogativo di fondo su cosa sia l’essere poeti e se sia lecito definirsi tali, dire che cosa si metta al primo posto nell’essere poeti è ancora più difficile. Diciamo che l’obbiettivo primario dell’essere poeti, ammesso che ci si possa definire tali, sarebbe riuscire a districarsi dai crampi mentali e dagli avvitamenti. Crampi mentali e avvitamenti come quelli che si sono appena prodotti in questa risposta, per capirci. Anche se il rischio è ovviamente quello precipitare nel volvolo di nuovi avvitamenti.
C’è stato qualcuno che devi ringraziare per averti dato, che so, dei consigli di come muoverti nel tuo percorso artistico?
Ci sono state figure positive, amici che erano vicini al mondo dell’editoria, poeti, critici, personalità dell’accademia, promotori culturali, scrittori, che ognuno col suo apporto mi hanno avviato al percorso grazie a cui la diffusione dei versi che si compongono non è più un’utopia. In questa sede forse non è il caso di fare nomi. I registri affettivi delle persone con cui si è in debito di qualcosa si deformano nel tempo, evolvono, possono ingenerare risentimento perché a volte da essi si rimuovono in modo semiconscio fasi fondamentali del proprio cammino, e si rimuovono anche le persone che a quelle fasi sono connesse. Ricordare gli uni piuttosto che gli altri, nel breve spazio di un’intervista, o della risposta a una singola domanda di un’intervista, mi sembra ingeneroso nei confronti della complessità delle singole memorie, e della somma delle storie che le compongono.
Cosa cerchi nella poesia? Quali sono gli argomenti alla base?
Al momento si potrebbe vedere la poesia come una sorta di ecologia del linguaggio. Sinteticamente, l’espressione verbale, con quello che veicola, è il fondamento delle strutture di senso che l’uomo tenta di costruire da sempre. Nel tempo attuale, un’area del pensiero filosofico ha depotenziato il linguaggio a eristica del momento. Lo slogan pubblicitario, i tic linguistici che comporta, lo slogan politico e il deterioramento cognitivo che produce, sono tutte forme di inquinamento del bioma linguistico umano. La poesia, da questo punto di vista, è nel contempo l’organismo periferico a margine del mondo dei dinosauri del linguaggio in estinzione, lo spazzino, la cura più o meno atroce dei mali della significabilità del mondo. Gli strumenti, più che gli argomenti, di cui si serve, sono l’ironizzazione e la parodia. I contenuti della poesia portano con sé il rovesciamento dialettico del bioma linguistico deteriorato: parafrasando il linguaggio della biologia, potremmo parlare della poesia come di una riserva della semio-diversità a rischio.
Nel 2012 hai pubblicato una raccolta dal titolo E fragile è lo stallo in riva al tempo. Che cos’è per te il tempo, un «guizzo che s’insinua tra le rocce, / al trepido squittio che s’interrompe?». O cosa?
Allo stato attuale, quella fase della mia produzione è non tanto superata, quanto da considerarsi espressione di un aspetto parziale ed esteriore del problema. Al momento direi, tenendo conto di certi sviluppi della fisica matematica, che in definitiva, pur con tutti i guizzi insinuati e i trepidi squittii, il tempo non esiste.
Oggi il compito della poesia sembra un’autocelebrazione. Sembra che i poeti non abbiano più nemici da contrastare. Troppi poeti della domenica. E tu che poeta sei? Quanto prendi sul serio la poesia?
Non so quanto possa essere auto-celebrativa la poesia. Certo, esiste la prassi delle vanity editions e c’è la sterminata produzione della poesia selvaggia. C’è anche un bel mercato dell’aura poetica: iniziative più o meno farlocche volte ad attirare l’aspirante velleitario e a trasformarlo in fonte di lucro. Fioriscono accademie e accademiole regionali, locali, di quartiere, di condominio, ognuna col suo piccolo premio e la sua piccola gratificazione transitoria. I poeti contemporanei che possono con coscienza inquadrarsi come persone serie, quale che sia il modo di intendere, interpretare e definire il concetto di poeta, hanno in realtà non tanto dei nemici, quanto la sfortuna di essere precipitati in un ambiente che nel suo insieme è tossico. Ovviamente, quando parlo di persone serie, mi riferisco a chi considera la poesia qualcosa di più che un drappeggio mondano da indossare nelle riunioni fra colleghi d’ufficio. E con questo credo di aver implicitamente risposto anche ai due commi finali della domanda.
Chi è il tuo nemico nella vita e nella letteratura?
Vedi sopra, in tema di ambienti tossici e dell’esservi precipitati.
Si sa che molti premi letterari, direi il 90%, sono costituiti ad personam, per amici e con una tassa di lettura per leggere qualche testo. Hai mai partecipato ad uno di essi e che opinione ti sei fatto, quale beneficio può arrecare un siffatto premio?
Diciamo che da simili premi mi sono tenuto lontano sin da quando sono entrato in quella che grosso modo, e in mancanza di termini migliori, suole definirsi l’età della ragione.
Oggi, con la crisi dell’editoria, pubblicare un volume non è semplice: le grandi case editrici non ti filano se non sei legato alla politica o a risorse economiche; per di più le piccole ti chiedono contributi economici, spesso esosi. Hai riscontrato difficoltà editoriali durante il tuo percorso, ti hanno mai chiesto denaro per pubblicare? Puoi farci qualche nome di editori a pagamento che hai incontrato sul tuo percorso?
Direi che mi sono tenuto sempre rigorosamente alla larga da chi chiede grosse quantità di denaro per pubblicare. Al momento non ho mai pagato per pubblicare. Difficoltà ovviamente se ne riscontrano di continuo, e sono legate, principalmente, alla scarsa visibilità delle piccole case editrici serie che pubblicano poesia.
Che cosa distingue l’uomo dal poeta?
Dipende. La persona loquens della poesia non coincide con l’io empirico: vecchia storia. Ma in senso lato, oggi non siamo più in un contesto tale per cui si possa parlare sempre, costantemente, di personae loquentes. Il poeta performativo, il poeta riscopritore dell’oralità, sarà in scena, per così dire, come persona loquens, almeno in linea di massima. Il poeta installativo, non assertivo et similia, ha per tempo abolito, come usurate, parecchie dinamiche del segno poetico tradizionale. In una forma poetica a sé, come Historiae di Antonella Anedda, quello che una volta si chiamava l’io lirico, la persona loquens, il pronome/maschera, è il marchio di comodo e il contenitore funzionale degli atti comunicativi che il poeta vuole concretamente esprimere, e delle radici di questi atti comunicativi. Il poeta selvaggio, peraltro, è convinto di esprimere se stesso nel modo più autentico, con la poesia che viene dal cuore, il vomito dell’anima: in realtà sta mettendo in scena una maschera socialmente accettabile di ipocrisie convenzionali, di cui non controlla niente –paradossalmente, se fosse in grado di controllare la maschera, non scriverebbe – e allora diventerebbe molto più poeta di quanto presumeva d’essere.
Che cosa ti fa più paura nella vita e nel mondo artistico?
Il degrado generalizzato, sul piano delle relazioni interumane, delle relazioni fra segno e significato, fra diritto positivo e decenza.
È risaputo che al giorno d’oggi si legge molto poco; gli autori, che siano poeti narratori o saggisti, a giusta ragione si lamentano di questa inedia. Tu quanto tempo dedichi alla lettura, quindi alla formazione e allo studio, e quanto alla scrittura?
Onestamente, considerando che sono tre momenti in continua permeazione reciproca, e non essendo io una persona incline a cronometrare la durata di ogni singola attività giornaliera, per me è difficile dare una risposta. Lettura, lavoro e scrittura si intersecano in una sola dimensione, e a seconda dei momenti ognuna occupa i ritagli di tempo dell’altra.
Qual è l’ultimo volume che hai letto?
Al momento sono in una fase di lettura-scrittura così convulsa, fra livelli e tipologie di opere così diversi, che non me la sento di dare una risposta credibile a questa domanda. La risposta meno implausibile è che sto rileggendo un volume di poesia a me molto caro, e meravigliosamente fuori corso, come le Elegies de Bierville del poeta catalano Carles Riba.
Quando ti sei accorto che potevi fare il poeta?
I’ non so ben ridir com’i v’intrai/ tanto era pien di sonno, a quel punto…
Cosa pensi dei libri digitali? Possono competere con l’editoria tradizionale, cioè con quella cartacea e perché?
Possono affiancarla. Possono rendere più complesso e ricco il rapporto fra l’uomo e la sua produzione testuale. Non parlerei di competizione. Fra l’altro, il concetto stesso di competizione mi provoca l’orticaria, in tutte le sue accezioni.
Qual è il tuo rapporto con la politica, con l’ambiente, con i problemi di tutti i giorni? Insomma, come vivi la quotidianità?
La vivo come può viverla un uomo occidentale che è nato nell’età moderna e si è ritrovato alle soglie del tardo-antico, con promesse più che affidabili di imminente alto medioevo.
Trovi difficoltà con l’ambiente letterario in cui vivi e che rapporto hai con i tuoi colleghi campani?
Lo spazio letterario è difficile, per le sue condizioni al contorno, nettamente caotiche (ribadisco per la terza volta: ambiente tossico); quanto al contesto strettamente campano, i rapporti sono per lo più positivi; spesso decisamente positivi, se non ottimi. Con altri contesti, in ispecie a Roma, le cose cambiano.
Oltre alla poesia, di cosa ti occupi?
Sono un docente di lingue classiche, italiano e storia. Dunque mi occupo di poesia, di trasmettere un minimo di attenzione per la poesia alle nuove generazioni; e delle radici delle condizioni della poesia.
Hai una ricetta per far uscire la poesia dallo stato comatoso in cui versa?
Le ricette si applicano fra i fornelli. La storia non cucina niente a lento fuoco. Non avendo potere per attuarle, non offro soluzioni. Posso solo rendere conto del mio operato.
In conclusione: quali programmi hai in cantiere?
Un manuale, un po’ di raccolte di poesia, un po’ di opere narrative, una traduzione di Apollonio Rodio. Che cosa vedrà la luce, se e quando, riposa sulle ginocchia degli dèi.