Il poeta che andiamo ad intervistare è Carmine De Falco, nato a Napoli nel 1980. È consulente di comunicazione digitale, membro dell’associazione Componibile62, direttore di RACNA Magazine e collaboratore della rivista di poesia Levania. Ha pubblicato le raccolte: Linkami l’immagine (Fara, 2006); Loop Vernissage (id., 2007); Italian Day (Kolibris, 2009); I Resistenti, con Luca Ariano (Edizioni d’If, 2012). Altri testi sono pubblicati su blog, riviste («Trivio»; «Levania»; «Faranews»; «Tabard»; «Farepoesia»; «Transiti Poetici»; «Carteggi Letterari»; «Poesia 2.0»; «Viomarelli») e in antologie, tra cui: Cittabianca (La Vita Felice); Nella Borsa del Viandante, a cura di Chiara De Luca (Fara, 2009); Pro/Testo, a cura di Luca Paci e Luca Ariano (Fara Editore); Vicino alle nubi sulla montagna crollata, a cura di Luca Ariano e Enrico Cerquiglini (Campanotto); Attraverso la Città, a cura di Pino Vetromile (Scuderi, 2011); AlterEgo. Poeti al Mann, a cura di Marco De Gemmis e Ferdinando Tricarico (Arte’m); Poeti da Secondigliano. Dal laboratorio all’antologia (Ad Est dell’Equatore); Poesia a Napoli (Guida editore).
Come ti sei avvicinato alla poesia?
Mia madre conserva dei versi che le ho dedicato quando avevo 5 anni, probabilmente scopiazzati da qualche cartone animato. Alle elementari scrivevo canzoni che avrei voluto mandare allo Zecchino D’oro. Quella che considero la prima poesia l’ho scritta in terza media: il Leopardi pessimista cosmico che si studia a scuola, trovò terreno fertile in un adolescente che usciva da un’infanzia felice, ovattata e creativa. Da allora non ho mai smesso e a diciotto anni avevo raccolto più di mille testi. La poesia era il mezzo con cui davo forma al mondo.
Nel tuo essere poeta cosa metti al primo posto?
L’onestà e lo studio. Mai prendere in giro il lettore.
C’è stato qualcuno che devi ringraziare per averti dato, che so, dei consigli di come muoverti nel tuo percorso artistico?
È davvero difficile ricevere consigli e men che meno critiche, che spesso sarebbero più utili di mille consigli. Il mondo della poesia italiana contemporanea è abitato da poeti/critici/recensori che si elogiano a vicenda. Gli autori stessi non amano ricevere critiche.
Nonostante ciò, sono molti quelli con cui ho avuto scambi proficui. Cito Giancarlo Alfano che mi mandò poche utilissime righe di commento, quando ero ancora un perfetto sconosciuto, Chiara De Luca e l’editore Alessandro Ramberti, che hanno creduto nella mia opera prima, ma anche i primissimi “sodali” tra cui Luca Ariano, Massimo Palme, Lorenzo Mari.
Il ringraziamento più grande va alla città di Napoli, che è stata la mia vera palestra, soprattutto negli anni 2006/9 in cui sono cresciuto di più. Sono tanti i poeti napoletani che dovrei ringraziare, mi limito a ricordare i principali, tra quelli che per primi si sono occupati e hanno avuto un impatto diretto sul mio percorso, Tricarico, Galluccio, Frasca, Ioni, Finelli, Marmo, Ventre, Vetromile, il direttore Lucrezi e la redazione tutta di «Levania», fonte di ispirazione continua.
Cosa cerchi nella poesia? Quali sono gli argomenti alla base?
“Fare poesia”, per me, è scrittura in relazione a un tempo e ad uno spazio (geografico ed ontologico), è rappresentare lo Zeitgeist o anticiparlo.
Significa testimoniare, rendere comprensibile (o, talvolta, incomprensibile) ai propri “vicini” e gettare una luce per gli uomini del futuro. Se è ai posteri che affidiamo il compito di giudicare il valore delle “cose” che contano e che resteranno, e a noi nel presente, che è dato di rappresentarlo e renderlo “significativo”, memorabile.
Senza però dimenticare da dove si viene: le opere si susseguono nel corso dei secoli richiamandosi e, in qualche modo, sviluppandosi, modificandosi e, per usare un concetto novecentesco, remixandosi, ma mai, se è vera arte, plagiandosi e ripetendosi.
Nel 2012 hai pubblicato una raccolta, con Luca Ariano, dal titolo I resistenti. Chi sono oggi i resistenti?
Sono le persone che resistono all’ignoranza. In Italia assistiamo ad una decadenza valoriale e culturale inarrestabile. Dalla nascita delle TV private, fino alle ultime riforme scolastiche di destra e sinistra, si è costruito un modello sociale dove la cultura è stata messa all’angolo. Se le élite del passato si circondavano di intellettuali per dare valore e luce alla propria esistenza, oggigiorno conta solo essere ricchi e ostentarlo.
Resistere significa non piegarsi a questo modello, fatto di chi urla più forte, di guerra tra poveri, di acquisto di cose inutili, di vendita del proprio corpo, di in-sostenibilità. Significa leggere un libro, ascoltare l’altro, esplorare il mondo e l’umano senza fare danni.
Oggi il compito della poesia sembra un’autocelebrazione. Sembra che i poeti non abbiano più nemici da contrastare. Troppi poeti della domenica. E tu che poeta sei? Quanto prendi sul serio la poesia?
Sono un poeta del sabato. Ho sempre desiderato che la scrittura fosse libera e non ho mai pensato di farne l’attività con cui sopravvivere. Però uno strumento politico sì, per questo ho partecipato volentieri a progetti come Pro/Testo, Noi Rebeldía, o la scrittura a quattro mani dei Resistenti.
Chi è il tuo nemico nella vita e nella letteratura?
L’ignorante, l’arrogante, il raccomandato senza meriti.
Si sa che molti premi letterari, direi il 90%, sono costituiti ad personam, per amici e con una tassa di lettura per leggere qualche testo. Hai mai partecipato ad uno di essi e che opinione ti sei fatto, quale beneficio può arrecare un siffatto premio?
Un premio come lo hai descritto non dà alcun beneficio.
Il consiglio che do, soprattutto agli under 30, è di puntare a premi con sezioni per giovani autori, dove i giurati sono più liberi di giudicare. E poi di scegliersi la propria giuria, conoscere i vincitori delle edizioni precedenti, e valutare se valga la pena o meno presentare i propri testi.
Mentirei se non dicessi che per me è stato fondamentale partecipare a premi. Grazie al Pubblica con noi, ho stampato la mia prima raccolta, e ho conosciuto altri poeti con cui non ho mai smesso di dialogare. Partecipo a pochi concorsi, ma essere finalista al premio Penna, a Zenit poesia, segnalato al Montano (per la prosa) e vincere i Miosotìs, mi ha permesso di conoscere nuovi autori e critici e di pubblicare. Talvolta poi, come nel caso del premio Poesia a Napoli, dove mi sono confrontato per la prima volta con la scrittura in dialetto, può essere un vero stimolo alla creazione.
Oggi, con la crisi dell’editoria, pubblicare un volume non è semplice: le grandi case editrici non ti filano se non sei legato alla politica o a risorse economiche; per di più le piccole ti chiedono contributi economici, spesso esosi. Hai riscontrato difficoltà editoriali durante il tuo percorso, ti hanno mai chiesto denaro per pubblicare? Puoi farci qualche nome di editori a pagamento che hai incontrato sul tuo percorso?
In molti casi l’editore richiede l’acquisto di un minimo di copie a prezzo scontato. Se la casa editrice è valida, il numero di copie minimo congruo con quante ne avresti comunque acquistate, e il prezzo del volume è onesto, potrebbe valerne la pena. Ma so di case editrici che chiedono anche 2000 euro. A me non è successo, ma non ho mai dovuto cercare un editore.
Mi piace pubblicare in antologie, una tipologia che dà la possibilità di dialogare con altri autori, e in riviste, dove non c’è nulla da pagare.
Che cosa distingue l’uomo dal poeta?
Il poeta ha una responsabilità pubblica che l’uomo non sempre ha. Nel mondo di oggi, dove la distanza tra pubblico e privato è ridotta ai minimi termini, è sempre più difficile distinguere le due sfere. Ma io cerco di non giudicare il poeta in base all’uomo. In quanto uomo ho debolezze e desideri che in quanto poeta cerco di non avere.
Che cosa ti fa più paura nella vita e nel mondo artistico?
La paura più grande è la solitudine, l’eventualità di non avere sodali, persone con cui percorrere pezzi di strada insieme.
Fanno paura anche l’invidia e l’ingiustizia, soprattutto nel mondo piccolo dei poeti.
È risaputo che al giorno d’oggi si legge molto poco; gli autori, che siano poeti narratori o saggisti, a giusta ragione si lamentano di questa inedia. Tu quanto tempo dedichi alla lettura, quindi alla formazione e allo studio, e quanto alla scrittura?
Non ci può essere scrittura senza lettura, buona scrittura senza tanta lettura, e più in generale, senza esperienze. Se si resta chiusi nella propria stanza non si va molto lontano. Mi stupisco sempre quando vado a presentazioni, magari con autori internazionali, e ci trovo i soliti quattro gatti. In quei momenti mi chiedo, dove sono i mille poeti che pubblicano?
Qual è l’ultimo volume che hai letto?
L’ultimo di Baino, Poesie scelte di Di Ruscio e Cronache dell’Antiterra di Paola Nasti, un testo polisemico di prosa e poesia.
Quando ti sei accorto che potevi fare il poeta?
Quando mi sono sentito pronto a far leggere i miei testi.
Cosa pensi dei libri digitali? Possono competere con l’editoria tradizionale, cioè con quella cartacea e perché?
Sono un mezzo potente per poter diffonde rapidamente ed a basso costo i propri testi.
Il libro cartaceo resta lo strumento preferito per soffermarsi e approfondire.
Qual è il tuo rapporto con la politica, con l’ambiente, con i problemi di tutti i giorni? Insomma, come vivi la quotidianità?
La poesia è uno strumento con cui esplorare il reale. Italian Day, che descrive una giornata di maggio 2009, nacque dall’esigenza di guardare dal di dentro l’Italia ‒ che aveva appena rieletto il berlusconismo a suo modello vincente ‒ con uno sguardo frontale, in medias res, in un poema corale e sociale.
Trovi difficoltà con l’ambiente letterario in cui vivi e che rapporto hai con i tuoi colleghi campani?
Il rapporto sarebbe più che positivo, se non fosse per la troppa permalosità e presunzione di alcuni. Anche rilasciando questa intervista mi chiedo se non scatenerà polemiche o commenti dietro le spalle. Ciononostante, l’ambiente letterario campano è accogliente, accessibile e geograficamente esteso, e questo è un gran bene perché permette di confrontarsi e di sperimentarsi con gli altri a più livelli. Ma la troppa accoglienza di qualcuno fa correre il rischio del mero esercizio senza critica e di appiattire al ribasso il livello. Questo crea fraintesi in autori che prima ancora di raggiungere la giusta maturità, si autoconvincono di essersi affermati.
Quando non ti occupi di poesia, di cosa ti occupi?
Comunicazione digitale e web. Arte e cultura, volontariato e settore giovanile. In questo momento collaboro per l’agenzia europea dell’ambiente.
Hai una ricetta per far uscire la poesia dallo stato comatoso in cui versa?
Non credo che la poesia versi in uno stato così comatoso, c’è piuttosto un’iperproduzione non bilanciata da una critica adeguata. Prevale l’italianissimo volemose tutti bene, che genera mostri. Ma in questo mare magnum c’è anche tanta qualità.
In conclusione: quali programmi hai in cantiere?
A luglio pubblicherò una mini raccolta, Appunti di robotica, su «Le voci della luna».