Diceva Pier Paolo Pasolini: «Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro». Forse è per questo che grandi letterati hanno amato il calcio o l’hanno praticato. Qui ci occuperemo anche di letterati che hanno praticato altri sport senza eccellere in essi. A cominciare dallo stesso Pasolini, grande amante del calcio che si divertiva a giocare dapprima sul campo della squadra locale di Casarsa, suo paese natale, poi dove capitava e infine sui campi di quartiere bolognesi, sempre nel ruolo di ala destra.
Corso gioca un calcio in poesia, ma non è un “poeta realista”: è un poeta un po’ maudit, extravagante. Rivera gioca un calcio in prosa: ma la sua è una prosa poetica, da “elzeviro”.
Anche Mazzola è un elzevirista, che potrebbe scrivere sul “Corriere della Sera”: ma è più poeta di Rivera; ogni tanto egli interrompe la prosa, e inventa lì per lì due versi folgoranti.
Si noti bene che tra la prosa e la poesia non faccio distinzione di valore; la mia è una distinzione puramente tecnica.
Tuttavia intendiamoci: la letteratura italiana, specie recente, è la letteratura degli “elzeviri”: essi sono eleganti e al limite estetizzanti: il loro fondo è quasi sempre conservatore e un po’ provinciale… insomma, democristiano. Fra tutti i linguaggi che si parlano in un Paese, anche i più gergali e ostici, c’è un terreno comune: che è la “cultura” di quel Paese: la sua attualità storica.
Così, proprio per ragioni di cultura e di storia, il calcio di alcuni popoli è fondamentalmente in prosa: prosa realistica o prosa estetizzante (quest’ultimo è il caso dell’Italia): mentre il calcio di altri popoli è fondamentalmente in poesia».
Ritornando agli scrittori mancati atleti, vale la pena citare Albert Camus che da giovane giocò a calcio come portiere fino all’età di diciotto anni, poi costretto a smettere a seguito di una tubercolosi. Una grande delusione per l’autore de La peste, il calcio era il suo sport preferito. però dal calcio imparò tanto: «Tutto quello che so sulla moralità e sui doveri degli uomini, lo devo al calcio». Insomma, un maestro di vita il calcio per Camus: «Ho capito subito che la palla non arriva mai da dove te l’aspetti. Mi è servito più tardi nella vita, soprattutto a Parigi, dove non ci si può fidare di nessuno». Va citato anche Osvaldo Soriano, mancato centravanti argentino (fece più di 30 gol in un campionato fino a che dovette smettere per un incidente) che da scrittore ha pubblicato un interessante volume in forma narrativa, Fútbol. Storie di calcio (Einaudi, 2005), per il quale il calcio «ha le sue ragioni misteriose che la ragione non conosce».
E gli scrittori che pur non praticando il calcio lo hanno amato? A cominciare a Jean Paul Sartre per il quale il «calcio è metafora della vita», l’elenco è lungo. Il calcio è rappresentazione del nostro tempo, dei nostri difetti, delle nostre frustrazioni, del nostro essere campanilisti. Ce lo dicono anche i poeti. Non possono mancare i versi di Leonardo Sinisgalli (I pomeriggi si fanno lunghi / l’aria rabbrividita dagli ultimi freddi / è già luminosa e trasparente dopo le acquate di marzo / c’è una luce di dolce crepuscolo sul campionato); di Vittorio Sereni (DOMENICA SPORTIVA – Il verde è sommerso in neroazzurri. / Ma le zebre venute di Piemonte / sormontano ricosse a un hallalì / squillato dietro barriere di folla. / Ne fanno un reame bianconero. / la passione fiorisce fazzoletti / di colore sui petti delle donne. // Giro di meriggio canoro, / ti spezza un trillo estremo. / A porte chiuse sei silenzio d’echi / nella pioggia che tutto cancella) ad idolatrare lo sport più bello del mondo. Salman Rushie, invece, tifoso del Totthenam, paragona il calcio all’amore, ad «un amore monogamo, fino a morte che non ti separi, essere tifosi ha un sapore particolare significa supportare decenni di disillusioni», per finire alla considerazione che ne fa Jorge Luis Borges: «Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada lì ricomincia la storia del calcio».
Se affermiamo che il calcio può diventare anche poesia, non diremmo del falso, specie se facciamo nostre le parole del poeta salernitano Alfonso Gatto («Il calcio è come la poesia, un gioco che vale la vita […] anche il poeta ha il proprio campo ove parole, colori e suoni vanno verso l’esito felice. Fa anche lui il gol o lo lascia fare, dando spazio alle ali, al lettore che cammina al fianco e che entra in porta con lui, nella felicità di aver colpito il segno») elogiando i cannonieri, i centravanti che, secondo il poeta potevano essere paragonati a dei poeti, «nulla o quasi nulla ai suggeritori e ai centrocampisti che fanno i conti con la ragione». In conclusione una domanda ci viene spontanea: posto che il calcio è poesia, è ancora metafora della vita?