Mi è capitato recentemente di rileggere Poesie delle sorelle Brontë (Emily, Charlotte e Anne), pubblicato presso l’editrice salernitana Ripostes nel 1989, a cura di Erminia Passannanti e tradotto dalla stessa curatrice e da Bartoli. Quando uscì questo volume, si trattò di una novità assoluta per noi italiani, giacché le poesie delle Brontë erano la prima volta che venivano tradotte e pubblicate in Italia.
Conosciute soprattutto come autrici di romanzi più o meno famosi (Cime tempestose di Emily; Jane Eyre di Charlotte; Agnes di Anne, per citare quelli più noti in Italia), le Brontë raggiunsero, in “solitudine”, dei ritmi e delle risonanze di vita intrisi di sogni e di desideri che, se da un lato gratificava con la consapevolezza di avere davanti spazi enormi da poter riempire, dall’altro inoculava gran quantità di malessere, di sfiducia, di malinconia, di ribellione in una vita apparentemente “vuota” che spesso conduceva nella sfera delle visioni, nella perdita struggente della propria identità.
Certo è che oggi queste poesie sono alquanto anacronistiche, appartengono alla prima stagione del Romanticismo. Il mondo da allora è morto e risorto migliaia di volte, e continua in questa sua tragica altalena. Ma oltre al fatto, non secondario, di presentarcele come poete, sia pure di quel Romanticismo nostrano che sperava di trarre un segno quasi reale da un mondo inarrivabile, incontrollabile, rimarcano un senso di spirito ribelle e visionario che le rende atipiche rispetto alla corrente romantica. Si tratta di poesie che lasciano scorrere il tempo nei meandri di metafore ben orchestrate, rendendoci consapevoli e partecipativi del fatto che la “vita” abita altrove.
Sin dal primo componimento possiamo affermare, senza troppe reticenze (ma col dovuto rispetto, s’intende), di avere davanti poesie di violenti passioni, di un’aura consolatrice, intime, di un quadro dipinto sullo scenario suggestivo delle grandi praterie dello Yorkshire (Inghilterra) dove le Brontë nacquero agli inizi del 1800 e vissero la loro breve esistenza. E proprio come un dipinto, nato dalla mano certa di un bravo pittore, ci vien da leggere queste poesie: la luce, le zone d’ombra, gli alberi, il cielo azzurro sgretolato di tanto in tanto dagli spasmi della disperazione, le lacrime di chi non può cancellare il terribile morbo del vuoto di una parola, si fondono con i colori dell’intorno.
Tre quadri, tre modi di usare i colori: suggestivi quelli di Emily (che vertono soprattutto sull’evasione e sull’amore viscerale per la libertà: «Verrò quando sarai più triste, / steso nell’ombra che sale alla tua stanza; / quando il giorno demente ha perso il suo tripudio, / e il sorriso di gioia è ormai bandito / dalla malinconia pungente della notte. // Verrò quando la verità del cuore / dominerà intera, non obliqua, / ed il mio influsso si di te stendendosi, / farà acuta la pena, freddo il piacere, / e la tua anima porterà lontano. // Ascolta, è proprio l’ora, / l’ora tremenda per te: / non senti rullarti nell’anima / uno scroscio di strane emozioni, / messaggere di un comando più austero, / araldi di me?, VERRÒ QUANDO SARAI PIÙ TRISTE»), sorti attorno alla coscienza femminile e alle loro condizioni disumanizzate dall’uomo quelli di Charlotte («Sono stanca del College; vorrei starmene a casa. / Voce pomposa del maestro, odioso schiamazzo di compagni, / sparite! Io passeggiar vorrei dove mi aggrada / e non tediarmi più con Greco, carta e penna. / Vedere il mio gattino giocare e la mia scimmia, / del mio pappagallo e usignolo la voce amata udire… / Non fa per me l’Inghilterra: così nevosa e fredda, / così diversa dal caldo splendore dell’Africa nera. / Tremo di giorno e batto tutta la notte i denti; / spenta e impaurita sono: una povera larva infelice! / Voglio il mio fratellino, il suo sorriso gentile, / le sue burle ad alleviare tanti giorni di dolore… / Io voglio la mia mamma, dolce cara adorata. / Un’anima così grata dove potrò ritrovare? / Oh non c’è qui mio padre, non sento le sue braccia / difesa da ogni pericolo, d’ogni crudezza scudo… / Non sento la sua voce, non vedo più i suoi occhi / sorridere al mio cruccio; da chi potrò volare?, NOSTALGIA DI CASA»), e morali (con qualche lineamento di ritmi liturgici, di una soprannaturalità inconoscibile) quelli di Anne («O lasciatemi sola per intanto: / nessuna forma umana qui vicino; / se sola penso, o ad alta voce canto, / non orecchio mortale che mi ascolti. / Via, sogni di felicità terrena, / e voi, mondane cure, andate via! / Lungi da me pensieri d’ansia e pena, / lasciatemi qui sola! / Infine apri le ali, anima mia, / e lascia questa terra dolorosa; / nello splendore immergiti del cielo, / Dio finalmente tuo compagno sia!», LASCIATEMI SOLA).
Entrambe dimostrano una solitudine e una sofferenza che le inducono a raggiungere una liricità quasi fastidiosa, mefitica, con l’istanza religiosa dei propri ancestrali limiti. Una rappresentazione di paesaggi dalle suggestioni romantiche (come già detto) che spesso si confondono col pathos del proprio desiderio, con la memoria di un tessuto inavvertibile ma che sta lì, nella vita di tutti i giorni. Una rappresentazione di un sogno in un continuo annullarsi con l’assoluto, col dolore, perché no!