A volte si lamenta – fondatamente – scarsa considerazione per la poesia. Ed è persino un luogo comune dire che oggi la poesia ha tanti lettori quanti sono i poeti, e probabilmente anche meno. Forse alle ragioni del fenomeno non è estraneo il fatto che noi occidentali siamo sempre più quell’impero alla fine della decadenza di verlainiana memoria, sicché tra noi la poesia, ripiegata su se stessa, non ha più incidenza sulle coscienze, plasmate (male) quasi solo dai mass media.
Ad esempio, sul fronte dei diritti conculcati delle donne, abbiamo avuto le nostre espressioni illustri, da Sibilla Aleramo a Jolanda Insana, ed ora la nostra poesia si è fatta più intimisticamente complessa, o comunque più ricca di non-detto o di non-dicibile, anche quando si apre a problematiche vaste che ci appartengono sul piano universale più che sul piano individuale.
Oggi possiamo invece aspettarci buona letteratura dai paesi martoriati, come già ha dimostrato la narrativa (si pensi a Khaled Hosseini).
Se leggiamo questi versi della poetessa siriana Maram al Masri non possiamo non confrontarli con la testimonianza che lasciò in “Una donna” Sibilla Aleramo:
“Per lui / e a causa sua / ho abbandonato i miei figli. / Pensavo che sarebbero cresciuti meglio / lontano da litigi incessanti, / cercando di ricucire gli squarci / nelle viscere della casa”.
Salvo che Khadija, la donna protagonista di questa poesia, a differenza dell’Aleramo, per amore dei suoi figli firma un terribile atto di capitolazione:
“Ho resistito / fino a trovarmi / quasi morta su un letto d’ospedale / cercando i loro volti / e decisa a ridiventare / loro madre”.
Maram al Masri vive a Parigi, in esilio. Il suo ultimo libro, “Anime scalze” (trad. ital. con testo francese ed arabo a fronte, Multimedia edizioni, 2011), è costituito quasi per intero (salvo l’ultima breve sezione dedicata alla fragilità dell’amore) da biografie poetiche di donne. È una galleria di personaggi dolenti, come lo specchio di una Spoon River al femminile, una teoria di donne viventi sì ma segnate in modo letale da una vita fatta di speranze tradite, di quotidiani soprusi, di aspirazioni negate.
Ecco cosa dice una di esse, Agneska: “Tutto quello che mi serve / è una camera / una camera con una finestra / affinché lo spazio possa penetrarvi, / la luna / il sole / e le stelle / e le parole del mondo. // Un tetto che mi protegga dalle piogge / e dei muri per attaccarci le foto / e la mia ombra per non restare sola // […] // Una camera / che conterrebbe / la mia libertà”.
E, come nell’Antologia di Spoon River dalle fredde lapidi escono vite palpitanti, così da questo elenco di vite negate, dai versi di queste “anime scalze” (“âmes aux pieds nus”, stupenda metafora che ci riporta subito alla mancanza di strumenti per camminare, per vivere), escono vite interiori palpitanti.
A volte parlano in prima persona, a volte dà loro voce dall’esterno un io poetico che si insinua delicatamente nelle loro sofferenze senza riscatto.
Senza riscatto anche perché il senso d’inferiorità della donna può affondare le radici nella donna stessa.
Ecco infatti Kahira, 65 anni, sarta in pensione:
“1° matrimonio a 16 anni / 8 figli in 27 anni / 1° divorzio alla trentina / 2° matrimonio con un uomo / che non le ha mai chiesto / da dove venisse / né dove andasse, / che le diceva: / ‘Il tuo sesso ti appartiene, / puoi farne quello che vuoi’. // Allora, lei ha chiesto il divorzio. // ‘L’uomo deve essere geloso della sua donna, / ha detto, / fino a picchiarla, se necessario. / Altrimenti, / vuol dire che non l’ama’”.
E ancora Mina, 29 anni, commessa:
“Quando sono stata interrogata, / non ho osato dire / che era stato lui / a colpirmi. // L’ho perdonato / senza che lui lo abbia chiesto. // Lo so / ero colpevole, / perché l’avevo contraddetto. // Il matrimonio, / sapete, / non è una poesia”.
Inoltre, l’autrice lucidamente sa che la subcultura maschilista non è appannaggio di alcuni paesi che interpretano la religione islamica come noi cinquant’anni fa interpretavamo quella cristiana (“E la donna seguirà l’uomo …” etc etc), ma persiste anche nei paesi che ospitano i migranti. Ecco Naïma, 30 anni:
“Da quando è arrivata in Francia / Naïma vive in una casa / che viene chiusa a chiave / ogni volta che suo marito ne esce. // Naïma non ha il diritto di uscire, / di parlare ai vicini, / di sorridere davanti allo specchio / né di guardare la televisione / (di cui lui ha nascosto il telecomando / in un angolino inaccessibile). / Naïma si ferisce la mano / quando il marito non c’è / infilandola nella fessura del mobile /per recuperarlo”.
A fare da cornice a questa difficile realtà c’è l’Amore, la molla che spinge avanti e indietro le vite, l’unica molla che muove la vita umana e l’eventuale speranza:
“Ad ogni inizio, / illusione / Ad ogni fine, / speranza”.
E questo pur in assenza di facili illusioni:
“L’amore avrebbe dovuto aggrapparsi a una tavola / per galleggiare / o costruire un’arca / per salvare le sue ragioni / Ma, / come un viaggiatore sempre sul punto di partire, / come le scarpe di un corridore / preferisce andarsene / lasciandosi dietro / fiumi, / montagne, / canzoni ed imprecazioni, / per cercare / nuovi inizi / e tristi finali”.
E con l’immagine del viaggiatore sempre sul punto di partire, che sembra rivitalizzare d’un tratto l’ungarettiano naufragio, il poeta contempla la vita senza illusioni, ma con ferme speranze.