La mostra “Pietro Consagra. La materia poteva non esserci” è la prima dedicata all’artista in un’istituzione pubblica svizzera. Il rapporto dialettico con l’altro, al centro della ricerca – fin dalla serie dei Colloqui (dal 1952) – la frontalità della visione e le sue mutevoli interpretazioni e il tema della città come luogo di pensiero e relazione con il vissuto, costituiscono il fulcro del progetto espositivo e del lavoro di Consagra presentato presso la Collezione Olgiati.
La mostra, attraversando l’opera di Pietro Consagra dagli anni ‘50 fino ai primi ’70, pone in evidenza come il suo contributo non sia stato di fatto formale ma direzionato verso una partecipazione, anche critica, alla società nella quale ha vissuto e lavorato. Le sessantaquattro opere in mostra testimoniano come, in maniera germinale prima e consolidata poi, Consagra ha tenuto sempre al centro della sua ricerca una forte attenzione per il valore dell’uomo e dell’arte al fine di costruire una società migliore. Pietro Consagra è uno dei rari artisti del ‘900 ad avere toccato tutti gli aspetti della creazione artistica: ha dipinto, scolpito, disegnato, creato gioielli, arredi e architetture urbane; ha sperimentato tecniche differenti su numerosi materiali, ha scritto molto, con raffinata vis polemica. La sintesi concettuale di tale percorso si può ravvisare nel titolo di una sua opera, in cemento armato, realizzata in Sicilia alla foce di una secca fiumara La materia poteva non esserci, come a ribadire quanto importante fosse il percorso che dall’idea passa per il concetto e finisce nel rapporto dialogico con la comunità. Tutte le materie sono state buone per lui; non ha distinto nel suo essere artista e fare arte per una di esse, non ha prediletto il rapporto con la materia per fini legati alla ricerca della forma.
Il tema della frontalità, persistente nella sua opera, ha escluso dalla scultura problemi e tematiche tradizionali della scultura come il volume e la massa, precipui dell’oggetto. In mostra sono presenti alcuni dei più importanti Colloqui e una selezione delle opere fondamentali degli anni ’50 in ferro, bronzo, acciaio e legno bruciato e numerosi ferri trasparenti. I Colloqui aprono la stagione mai chiusa del grande tema concettuale nel quale la forma libera e fantastica creava la presenza, parola chiave per entrare nel mondo di Consagra. Nessun processo di mimesis, nessuna persistenza del reale, ma una eco che va creando le forme nelle sue sculture dirigendoci verso quell’umanità presentata nel più semplice e complesso dei suoi rapporti: un dialogo, un colloquio… il parlare insieme… il tutto abbandonando per sempre qualsiasi intento narrativo o descrittivo. I Colloqui abitano lo spazio, loro condizione esistenziale e non la cornice. Sono una forma ecologica, una presenza in un ambiente.
La ricerca interiore compiuta sui legni bruciati, ferro e bronzo, è sempre stata accompagnata da una tecnica superba, mai una défaillance negli accostamenti, negli assemblaggi, nelle fusioni, nelle variazioni della materia. Si tratta di una tecnica, unita da un sapiente uso, di un mezzo potenzialmente aggressivo e invece, se utilizzato come ha fatto Consagra, fortemente espressivo e poetico come la fiamma ossidrica.
I ferri trasparenti, poi, si presentano come un’immagine a due facce, non rispettano più l’impianto quadrangolare e sono dominati da una linea curva che spezzandosi continuamente si ricongiunge. I ferri sono mossi da un incalzante, a tratti frenetico, ritmo interiore e da movimenti leggeri resi leggiadri dal colore, dai toni immaginifici e non naturalistici. Si mantiene forte il rapporto tra segno e disegno, testimoniato in mostra dalla presenza di alcuni esempi, compresi preziosi spolveri provenienti dall’archivio dell’artista. I ferri trasparenti costituiscono uno spazio originario, di germinazione, dove alle forme della natura e alla loro contemplazione l’arte reagisce con la propria artificialità.
“L’arte è l’alternativa non il rifugio della natura. L’arte non è più un servizio di Potere, è un modo di vivere, un obiettivo un esempio, un aiuto. La natura può solo assorbirci, isolarci, toglierci dal giro, mantenerci nel fallimento, nella frustrazione dei rapporti umani. Più la natura può apparire un probabile asilo, più la città corre verso la rovina dell’uomo. Se noi ci rifugiamo nella natura portiamo con noi le armi distruttive della città attuale e disseminiamo la corruzione del nostro senso del bene. Non dobbiamo andare verso la natura mentre dobbiamo andare verso la città”. Era presente fin dagli anni ’60 in Pietro Consagra la consapevolezza di come la natura non potesse essere un alibi, un ideale rifugio, un luogo da mitizzare o definire come desiderabile, seguendo l’odierna narrativa sul valore dei piccoli borghi e del cosiddetto countryside nella sua accezione di luogo di rifugio o di mitica innocenza.
Fondamentale ripartire dalla città come luogo dell’uomo maggiormente vissuto ed esteso, allora come oggi sempre di più. Ecco che arriva La città frontale, siamo nel 1969. In occasione della mostra a Lugano verrà presentata nella sua totalità, con la fondamentale linea dell’orizzonte, posta dall’artista nella mostra alla Galleria dell’Ariete nel 1969, a determinare la collocazione dell’uomo rispetto al paesaggio creato dall’artista\architetto\urbanista. Un segno, un gesto dai tratti umanistici, per una definizione urbana del contesto. Una concretizzazione di emozioni e idee che trovano nella forma città il riferimento più significativo alla complessità degli intrecci che sommano i modi di vivere individuali e collettivi, alla proiezione fisica dei poteri politici ed economici. Dopo l’esperienza americana e l’incontro con le grandi architetture di Sullivan, Wright e altri campioni del modernismo, Consagra con questo tema non dichiara una eccentrica e autoritaria proposta d’artista, bensì affronta un problema reale cresciuto nel tempo fino a divenire permanente: i molti, perlopiù frustranti e conflittuali, rapporti dell’uomo con lo spazio urbano, oltre a quelli dibattuti da sempre, relativi alla necessaria e immediata incidenza sociale. Consagra immette in questo ambito anche un tema fondamentale relativo alla modalità di esistere nella città: il progressivo distacco della nostra identità dalle nuove costruzioni che trasformano e dettano lo spazio del vissuto cittadino portando le persone ad uno stato di generale rassegnazione. La città frontale è il segno della considerazione intellettuale ma anche del legame affettivo nei confronti dello spazio urbano. Nel suo libro La città frontale del 1969 scriveva “Le città sono diventate rancore, ma non per l’inquinamento che è un male rimediabile ma per l’invasione di un’architettura che resterà impiantata, indistruttibile…”
Per la prima volta verranno esposti anche tre lenzuoli dipinti, parte di un nucleo più numeroso prodotto dall’artista tra la fine degli anni ’60 e i ’70. Esempio di lavoro intimo, personale, su materiale povero e quotidiano, trasmettono una eco di ciò che giovani artisti stavano facendo all’epoca. Gesto di politica domestica dove non manca mai la rappresentazione della sua idea di scultura.