Quando era piccola Iris amava la pioggia. Ne riconosceva il profumo poco prima che arrivasse e il rumore quando le prime gocce toccavano i ciottoli grigi attorno alla sua casa di montagna. All’arrivo delle prime gocce Iris correva salendo i gradini di legno a due alla volta, entrava in camera e spalancava le finestre. Lì, ferma immobile come una statua di sale, con il suo miglior sorriso, osservava le montagne scomparire piano piano dietro a grandi nuvoloni bianchi sempre più bassi. Osservava e aspettava. I suoi occhi azzurri poco sapevano, allora, dei lunghi discorsi sul sale della vita, sulla ricerca continua che gli adulti intraprendono quando sentono il peso del tempo e l’apatia della vita. Lei fiduciosa si godeva il rumore della pioggia senza pioggia senza pretendere il suo immediato cessare. Di quello avrebbe goduto dopo quando, protetta dal suo impermeabile, si sarebbe incamminata tra i boschi inspirandone il profumo e ammirando la lentezza delle lumache che timide uscivano dagli anfratti dei muretti di pietra. A loro avrebbe cantato una canzone in dialetto per far si che allungassero i loro tentacoli e aprissero i loro occhi a una rinnovata quiete. Sua zia i tentacoli li chiamava cornini ed era stata proprio lei a insegnargliela.
Da quasi quattro anni a Iris tuttavia la pioggia non piaceva più. Le metteva ansia e paura, tutta colpa di un mattino di fine maggio quando fu svegliata di soprassalto. Il cielo nero fu squarciato dal suono dell’ambulanza e illuminato dalla luce blu di quella sirena. Il tempo per Iris si fermò lì. Senza accorgersene diventò come uno di quei cibi nei quali non sai mai se contengono o meno la giusta quantità di sale, come una ricetta incompleta per la quale sale l’ansia e il tempo diventa un’affannosa ricerca dell’elemento mancante.
Fu una mattina di inizio maggio, una mattina che racchiudeva in sé il sapore dell’attesa a cambiare le cose e a ridare alla vita di Iris la giusta quantità di sale. I ciliegi avevano da poco esposto i loro primi fiori rosa al frizzante vento di primavera mentre i pomodori attendevano ancora i caldi raggi di sole per assumere il loro colore rosso quando il cielo si fece carico di nubi e una leggera pioggia cominciò a cadere. Furono un paio d’occhi a trasformare la sua paura. Davanti a loro Iris poteva reggere il peso dei complimenti. Erano suoi quegli occhi che per anni erano rimasti vuoti, opachi e insipidi, prima in cammino e poi stanchi. Erano i suoi di cui se ne era preso cura e poi aveva chiesto anche a lei di farlo.
Il rumore della pioggia quella strana mattina di maggio tornò ad avere il profumo dei suoi boschi, la pazienza delle lumache e il delicato brusio del sale quando tocca l’acqua prima di darle sapore. Il tempo scorre e trasforma. Con il naso appoggiato al vetro Iris guardava la sera sopraggiungere e la pioggia farsi più debole fino a lasciare il posto a sprazzi di cielo più sereno.
“È caparbio come noi”. In risposta quella voce calda ottenne solo un sorriso che in un attimo invase la stanza per poi fondersi con due calde braccia che le cinsero la vita.