(Adnkronos) – Si è spento questa sera a Roma a 93 anni Philippe Leroy dopo una lunga malattia. Per decenni è stato uno dei volti più noti del cinema e della tv italiana, Paese che aveva ‘adottato’ all’inizio degli anni Sessanta, dopo una giovinezza avventurosa, che lo aveva reso particolarmente credibile nei ruoli da duro interpretati nei decenni successivi.
L’ultima apparizione in La notte è piccola per noi, regia di Gianfrancesco Lazotti del 2019. Il suo nome per il grande pubblico italiano è legato all’interpretazione che diede di Yanez de Gomera, il fedele amico portoghese del celebre pirata Sandokan la Tigre della Malesia, nello sceneggiato televisivo della Rai “Sandokan” (1976) di Sergio Sollima, e a quella di Leonardo nell’altrettanto celebre sceneggiato televisivo “La vita di Leonardo da Vinci” (1971) di Renato Castellani.
Nel 1990 l’attore aveva sposato la giornalista Silvia Tortora, figlia del conduttore televisivo Enzo, da cui ha avuto due figli, Philippe e Michelle, e che lo ha lasciato vedovo il 10 gennaio 2022. L’attore ha anche un’altra figlia da un precedente legame, l’attrice Philippine Leroy-Beaulieu. Dai cinespettatori italiani si era fatto apprezzato già come coprotagonista accanto a Rossana Podestà nei film “Sette uomini d’oro” (1965) e “Il grande colpo dei 7 uomini d’oro” (1966).
Sul grande schermo l’attore ha saputo imporre, sia in ruoli di eroe sia in quelli negativi, infidi o crudeli, il suo personaggio di ‘duro’ dal fisico asciutto e atletico, dal volto scavato e dal carattere deciso. In mezzo secolo di carriera Leroy è apparso in quasi centocinquanta film (essenzialmente italiani), anche se spesso in parti di secondo piano, passando attraverso tutti i generi, dal peplum all’horror, dal thriller alla commedia. In tv il suo ruolo più recente è stato nella serie “Don Matteo” (2008-2009) con Terence Hill, nel ruolo del vescovo. Al cinema ha avuto un ultimo piccolo ruolo in “La notte è piccola per noi” (2019) diretto da Gianfrancesco Lazotti.
Nato a Parigi il 15 ottobre 1930 in una famiglia nobile (il padre, diplomatico, era marchese), nel 1952, dopo la laurea in scienze politiche, Leroy abbandonò un destino garantito per andare a combattere come sottotenente paracadutista prima in Vietnam e poi in Algeria; visse quindi per qualche tempo negli Stati Uniti. Tornato in patria, esercitò mestieri assai diversi finché, in qualità di amministratore della pubblicità della rivista “La cinématographie française” ebbe modo di entrare in contatto con il mondo del cinema. Leroy conobbe così Jacques Becker, che nel 1960 lo scritturò per “Il buco”, nel suo primo ruolo da duro: un detenuto che tenta la fuga dal carcere, un criminale, ma umano e pieno di dignità.
Seguirono altre interpretazioni in Francia, ma, soprattutto, dal 1961 prese a lavorare prevalentemente in Italia, dove partecipò subito a due film che esemplificano i suoi principali ruoli futuri: “Caccia all’uomo” di Riccardo Freda, in cui interpreta un bandito ricercato e poi catturato dalla polizia; “Leoni al sole” di Vittorio Caprioli, liberamente ispirato al romanzo “Ferito a morte” di Raffaele La Capria.
Da allora, sia nei film commerciali sia in quelli d’autore, e anche nelle numerose produzioni televisive (cui prese parte sin dai primi anni Settanta), l’attore alternò parti di cattivo puro con altre di aristocratico decadente: dal pilota borghese tradito dalla moglie di “Una donna sposata” (1964) di Jean-Luc Godard, al ‘professore’, membro di una gang internazionale che svaligia una banca svizzera di “Sette uomini d’oro” (1965) di Marco Vicario, film campione d’incassi che gli regalò una grande popolarità.
Per il fisico e la duttilità d’espressione, Leroy si è visto spesso affidare personaggi di forte carisma resi con notevole classe: è infatti un principe in “L’attico” (1963) di Gianni Puccini e in “Il tango della gelosia” (1981) di Steno; Sant’Ignazio di Loyola in “State buoni se potete” (1983) di Luigi Magni e Papa Leone XIII in “Don Bosco” (1988) di Leandro Castellani.
Spesso, invece, è stato scelto per interpretare personaggi crudeli, decisi a distruggere gli avversari: così è il tribuno Silla che non esita a rompere un trattato di pace in “Solo contro Roma” (1962) di Herbert Wise (Luciano Ricci); un maggiore che trasforma con la forza un plotone di ribelli in una macchina da guerra in “R.A.S. – Nulla da segnalare” (1973) di Yves Boisset; un nazista in “Il portiere di notte” (1974) di Liliana Cavani; un uomo che costringe la moglie a prostituirsi e violenta l’amica del figlio sotto i suoi occhi in “Tranquille donne di campagna” (1980) di Claudio De Molinis. Leroy ha saputo rendere i suoi personaggi inquietanti, come in “Femina ridens” (1969) di Piero Schivazappa, in cui l’uomo irreprensibile che interpreta è in realtà un seviziatore di prostitute.
In “Senza sapere niente di lei” (1969) di Luigi Comencini, disegna un crudele assassino disposto a diventare l’amante della figlia di una donna uccisa pur di ricavarne delle informazioni, mentre in “L’occhio selvaggio” (1967) di Paolo Cavara è un cinereporter che, per ottenere una scena realistica, organizza un incidente e filma un attentato senza badare all’amante che rimane uccisa. Nel corso degli anni Novanta, oltre a lavorare in televisione, ha interpretato piccoli ruoli in film come “Nikita” (1990) di Luc Besson, “Il ritorno di Casanova” (1991) di Edouard Niermans e “Mario e il mago” (1993) di Klaus Maria Brandauer. Nel 1999 ha partecipato alla commedia “Il pesce innamorato” di Leonardo Pieraccioni e nel 2001 al drammatico “Vajont – La diga del disonore” di Renzo Martinelli.
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