Domani, primo marzo, cade il primo anniversario della sua morte del poeta verbovisuale Stelio Maria Martini, avvenuta a Caivano in provincia di Napoli dove abitava. Qui vorrei ricordarlo anche come amico, al quale devo l’approfondimento della poesia visuale e del comportamento da adottare nel pericoloso ed invidioso mondo della cultura italiana, dicendo no quando occorre e non salire su tutti i carri solo perché ti danno un po’ di notorietà: la letteratura – affermava ? è una scelta di vita che va vissuta senza compromessi, a parte quello con la letteratura stessa, guardare sempre avanti e stare attento agli ostacoli.
Martini era nato per caso ad Ancona nel 1934, da padre napoletano, ma visse quasi tutta la sua vita a Napoli. Di grande intelletto, trascorse la sua ultima parte di vita in solitudine ma non solitario, in quanto continuava a tenere contatti con i suoi sodali e il mondo intellettuale non solo napoletano. Poeta lineare ma soprattutto visuale (partecipò alle più importanti mostre del settore, come quella di “Poesia visiva. 5 maestri”, con Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti, Ugo Carrega e Sarenco, ospitata tra 1988 e 1989 a Palazzo Forti di Verona, al Museo Mediceo di Firenze e al Castel dell’Ovo di Napoli), fu il primo in Italia a pubblicare un volume di poesie visuali, Schemi (Edizioni Documento Sud, Napoli 1962), pietra miliare della scrittura visuale in Italia, due anni dopo che il Gruppo 70 di Miccini e Pignotti, in Italia producono le prime poesie visuali, intreccio di una tendenza che rivendica l’impiego dell’immagine nella scrittura, del corpo-materia, della citazione, del paradosso, dell’azzardo, dell’utopia che traccia con le mani i percorsi complessi del pensiero.
Conobbi Martini (come lo chiamavano tutti gli amici, ma io mi azzardavo a chiamarlo semplicemente Stelio, anche se si chiamava Crescenzo) a casa di un altro amico, Antonio Spagnuolo (per sua e nostra fortuna ancora vivo!). Fummo radunati da Ciro Vitiello, assieme ad altri napoletani (Franco Capasso, Wanda Marasco, Marisa Papa Ruggiero, per fare qualche nome), per tentare di costituire una nuova rivista, edita da Alfredo Guida, quella che poi sarebbe stata denominata «Oltranza» e che lo stesso Vitiello ne fu il direttore. Se riuscii a convincere i presenti sulla denominazione da dare alla rivista (la proposta del nome fu mia), fu grazie all’appoggio di Martini che avvalorò il mio pensiero: Oltranza, ossia “oltre il già dato” e lontano dal presente sempre più vacuo, anche se poi la rivista (di cui uscirono solo tre numeri) divenne qualunquista e per nulla corrispondente alla sua denominazione, eccezion fatta per gli scritti di Martini, di Capasso e pochi altri.
Oggi la letteratura non può che riformulare nuove valenze, uscire dalla storia per rientrarvi in senso negativo, dove il ritmo delle combinazioni, nel suo contenuto gioioso e drammatico, si apra alle frequenze discontinue, alle inquietudini, mutando la funzione del gesto, allargandosi nei fatti come altro, come conoscenza, come confronto critico fin negli interstizi del mondo. In questa direzione si è sempre spostato il fare poetico di Stelio Maria Martini, uno degli artefici dell’avanguardia a Napoli, di un susseguirsi di riviste (da «Documento Sud» [1958] a «E/mana/azione» [1981]) e pubblicazioni varie di grande spessore culturale, dimostrando di possedere indiscusse qualità e una vena ipertrofica alimentata da eventi e anticipazioni straordinarie. La poesia di Martini s’intreccia, con un’inquietudine intesa come gioia, come passione arguta, sulla narrazione diacronica di un sogno sognante, atarassico nei confronti di un esistente sempre più insignificante, su tracciati ipertrofici e molteplici. Ma è innanzitutto un lavoro dissacratorio, di combinazioni verbali e antiliriche, di giochi linguistici e immagini rapinate ai media, alla stupidità del luogo comune. Fa compagnia alla sua vena creativa, una corposa e intelligente attività di critico letterario, incentrata sia sulla storia della letteratura con ragguagli sia sulle avanguardie storiche e sulla neo-avanguardia. In questa veste lo ricordiamo come esegeta, con i saggi pionieristici, di Emilio Villa e di Edoardo Cacciatore, pubblicando sue letture all’interno dei volumi sul ‘900 editi dall’editore Marzorati e curati da Gianni Grana; curatore di due volumi delle Tavole parolibere futuriste (Liguori, 1975-1977), una rivisitazione del futurismo in collaborazione con Luciano Caruso; de L’oggetto poi/etico (E/mana/azione, 1980) e de L’impassibile naufrago. Le riviste sperimentali a Napoli negli anni ‘60 e ‘70 (Guida, 1986); e come autore di una Breve storia dell’avanguardia (Nuove Edizioni, 1988) e della raccolta di saggi Tramonto della parola (Bulzoni, 1999).
Per Martini e i suoi sodali, promotori di un’avanguardia che negli anni sessanta e settanta, a Napoli ha avuto un centro importante e di grande impulso, deflagrando il verbum dal suo interno, provocando una preoccupante “arsura mentale” del tempo, con l’avvento del postmoderno degli anni ’80, la poesia di rottura è morta, «oggi latitat per popinas, perché l’editoria “maggiore” (ma è l’industria editoriale, cioè la produzione della merce-libro da difendere/diffondere a tutti i costi) presenta […] per forza di cose un “futuro impedito”, mentre l’atteggiamento notarile dei gruppi correnti impedisce l’unificazione intorno al problema vero, che è, davanti alla società spettacolo, il progetto della società dei protagonisti» (in Centauri, farfalle e, appassionatamente, tutti gli altri. Indagine sui linguaggi poetici, cat. a c. di A. Santoro e B. Tramontano, Colonnese editore, Napoli, 1986, p. 25). Si tratta di un nuovo modo di fare cultura, di un’estetica nuova, o per meglio dire di un’antiestetica, di un’anti-forma, di un antimetodo, il gesto poietico, la re-invenzione del quotidiano, una letteratura “fuori commercio” e fuori della rituale tautologia di una cultura eccitata da infinite illusioni. Ciò che si tenta di produrre è una letteratura autogestita, spontanea e anarchica, nel senso di “senza padroni”, che non miri al semplice esercizio scritturale o a salotti lussuosi bensì all’azione gestuale, a un’alterità misurabile con la curiosità di saper guardare nel fuori di un non-luogo (di un luogo comune), nonché nei suoi vari strati sociali, con una contraddizione/frattura per una scrittura che sia l’esatto contrario dell’ufficialità.
Le parole in Martini, grottesche e irriverenti, nascono, come egli stesso asserisce, «dall’elemento visivo, esempi tipici di commistione di linguaggi», e da un gioco intellettualistico che fanno di un testo poetico un testo mobile, trasgressivo, ordinatamente “disordinato”, che ci ha lasciato in eredità. «[…] si va così dall’ibridazione verbale ? dirà Luciano Caruso nella prefazione Per Martini (25 anni dopo) a S. M. Martini, Schemi, op. cit. ?, che sconfina quasi nella poesia sonora, alla poesia gnomica, alla poesia grafica e manoscritta, al détournement vero e proprio di canzonette entrate nell’immaginario collettivo della cultura di massa», con lo spettro di un fallimento culturale sempre in agguato dietro l’angolo.