Giù le mani dalla cultura! Questo è il grido di protesta levatosi dai lavoratori dello spettacolo dopo che il nuovo DPCM ha decretato la chiusura di cinema e teatri, oltre che delle palestre. Un grido che in realtà si era alzato già prima del documento e che lamentava la totale dimenticanza da parte del governo per una categoria lavorativa che comunque contribuisce all’economia del Paese. E ora si chiedono: che senso ha chiudere luoghi opportunamente regolati e controllabili? Perché non sono considerati alla stregua di musei e chiese?
La chiusura di palestre, cinema e teatri
La rabbia e lo sconforto dei lavoratori dello spettacolo è più che comprensibile. Il loro è uno dei comparti più duramente colpiti dalla pandemia. Nei lunghi mesi del lockdown cinema e teatri hanno dovuto chiudere i battenti, i cosiddetti “ristori” economici a sostegno della categoria sono stati poco quanto inesistenti e dopo aver opportunamente adeguato gli spazi alle regole anti Covid, si chiude nuovamente tutto all’alba di una nuova stagione. Una stagione che si sarebbe rivelata meno redditizia delle precedenti, visto il ridotto numero di posti a sedere, ma che costituiva pur sempre un segnale di ripresa. Una singolare protesta è quella dell’attore napoletano Francesco Di Leva che ha proposto di ambientare gli spettacoli teatrali nelle chiese nelle quali è consentito recarsi per partecipare alle celebrazioni.
Le palestre
Lo stesso destino è toccato alle palestre. Chiuse durante il lockdown, per riaprire agli inizi dell’estate hanno dovuto riadattare gli spazi e rimodulare le organizzazioni interne per rispettare il protocollo stilato dal Comitato Tecnico Scientifico. Anche per loro, utenza ridotta e qualche piccolo investimento per erogare i servizi in totale sicurezza. Ora nuovamente chiuse dopo una penosa agonia di una settimana, tempo concesso dal precedente DPCM per adeguarsi alle norme di sicurezza.
Tempo perso?
Francamente fa male sentire gli operatori della cultura elemosinare pari dignità con altri settori adducendo la motivazione che “anche” la cultura muove l’economia. Nella sua lettera aperta al presidente del Consiglio Giuseppe Conte il maestro d’orchestra Francesco Muti ha definito le attività teatrali e musicali come un “cibo spirituale senza il quale la società si abbrutisce” manifestando grande tristezza nel veder considerata l’arte come un qualcosa di superfluo. I teatri e i cinema, come anche le palestre, sono luoghi nei quali è facile sia rispettare le regole, sia controllare che queste siano seguite. La questione è che queste attività scontano decisioni prese a livello più generale e, cosa da non sottovalutare, l’incapacità di monitorare altre situazioni. Purtroppo di fronte all’aumento vertiginoso dei contagi ci si trova costretti a prendere decisioni drastiche sconfessando tutto il lavoro fatto nei mesi scorsi per riprendere in sicurezza le attività di sempre. Siamo ancora lontani dalla possibilità di convivenza con il virus.