Domani, 26 settembre, alle ore 17, lo Studio Museo Francesco Messina presenta la mostra fotografica “Gibellina 1968 – otto minuti dopo le tre. Giuseppe Iannello”, cui seguirà, alle ore 18, la conversazione di Geminello Preterossi (Università di Salerno) con Alice Dal Borgo e Maria Fratelli intitolata “La forza dei luoghi come antidoto all’omologazione”.
L’esposizione, aperta fino al 22 ottobre, offre opere fotografiche stampate in bianco e nero di Giuseppe Iannello che ritraggono alcune immagini di archivio della vecchia Gibellina elaborate e proiettate dall’artista sul Grande Cretto di Alberto Burri, per far rivivere il luogo e le persone colpiti dal violento terremoto del 1968 e fissarli nella memoria storica.
L’interessante creazione artistica approfondisce così tematiche legate alla memoria, al senso dei luoghi dimenticati, abbandonati e distrutti e al loro destino, argomenti centrali anche per l’artista Domenico Fazzari, che espone parallelamente con una tela di 80 metri quadrati il cui soggetto è l’abside della chiesa di Africo, sopravvissuta all’alluvione del 1951 e chiesa “gemella” di San Sisto, sventrata dai bombardamenti del 1943, attuale sede dello Studio Museo Francesco Messina.
“Gibellina 1968 – otto minuti dopo le tre. Giuseppe Iannello” fa riferimento alla notte tra il 14 e il 15 gennaio del 1968 quando un violentissimo sisma colpì la valle del Belice, nella Sicilia Occidentale. Il terremoto, localizzato tra i paesi di Gibellina, Poggioreale e Salaparuta, causò 231 morti e circa 1000 feriti. Per molti mesi gli abitanti di questi paesi furono costretti a vivere in tendopoli e, per diversi anni, nelle baraccopoli.
Negli anni seguenti, il Governo Italiano tentò una ricostruzione delle zone colpite. Una nuova Gibellina fu costruita a 20 km da quella distrutta, ma non era più la stessa. Mentre la vecchia Gibellina subì una rapida morte per mano del terremoto, la nuova Gibellina subì una morte lenta per mano dei pianificatori.
Oggi, nel nuovo paese, gli ampi spazi pubblici ostacolano le relazioni della comunità. Le case, progettate dagli architetti che sognavano l’ideale della città-giardino, hanno di fatto cancellato l’abitudine degli abitanti di sedersi sui gradini della porta di casa. Gli anziani dicono di sentirsi come ospiti nel loro paese, mentre i giovani si sentono orfani di un modo di vivere che non hanno mai sperimentato.
L’interesse di Giuseppe Iannello è incentrato sull’avvenuta disconnessione tra queste due generazioni e si chiede: “Che cosa rimarrà nella mente delle nuove generazioni quando l’ultima persona che ha vissuto il tragico evento del terremoto non ci sarà più a raccontare la storia del vecchio paese? E come vivranno e creeranno quegli spazi comuni che sono andati persi?“.
Mentre la nuova Gibellina è divisa a metà tra passato e presente, le rovine dell’antica Gibellina sono diventate il luogo di una installazione artistica: Alberto Burri ha risposto alla catastrofe compattando e coprendo le macerie del paese con uno spesso strato di calcestruzzo bianco, con fessure che lo attraversano seguendo il tracciato stradale originale. L’opera, chiamata Il Grande Cretto, si può vedere come un sarcofago concettuale, un memoriale del paese.
Racconta Giuseppe Iannello: “Io sono nato diversi anni dopo il terremoto e sono stato sempre attratto da questa enorme opera d’arte di 8.000 mq che è il Grande Cretto. Faticavo a capire il suo profondo significato, ma era così immensa e straordinaria che sono tornato diverse volte a visitarla, anche da adulto. Ogni volta che camminavo tra le crepe del Grande Cretto, la fantasia di vedere il vecchio paese prendeva sempre più forma. Immaginavo la città vecchia, la sua gente e la sua storia e mi interrogavo inoltre sul significato del concetto di “memoria”. Ho pensato quindi di proiettare le immagini d’archivio che raccontano la vita della vecchia Gibellina sulle pareti del Grande Cretto provando a ricreare le strade, le atmosfere e a restituire i volti degli abitanti di Gibellina prima del terremoto“. Accompagna la mostra un testo critico a cura di Colin Pantall.