Made in China. L’epoca del mercato contraffatto che degradava la Cina come il Paese delle imitazioni sembra essere finita. L’International Comparison Program della Banca Mondiale ha oggi effettuato una revisione dell’analisi effettuata nel 2011 sulle economie mondiali basandosi non più sui tassi di cambio adoperati dal Fondo Monetario Internazionale ma sulla parità di potere d’acquisto. La ragione è semplice: un siffatto studio è stato considerato più attendibile perché più vicino alla realtà economica rispetto a quello basato sui più volatili tassi di cambio che oscillano frequentemente. I risultati? Davvero sorprendenti: nel 2012 il Pil cinese era divenuto l’87% di quello americano (13496 miliardi di dollari contro i 15535 miliardi di dollari degli Usa). È chiaro che la strada è in discesa per i cinesi la cui economia si candida per fine anno ad essere la prima al mondo per ricchezza pro-capite. Stati Uniti bye bye.
Come sono arrivati ad un simile traguardo? È corretto parlare per la Cina di capitalismo di Stato? Non sembrerebbe così. I fatti ci dicono che la speculazione finanziaria che in Occidente ha generato la grave crisi del 2007 non ha toccato ancora la Repubblica popolare cinese, che, forte di una grande forza lavoro (la popolazione supera il miliardo di persone) è ancora contraria all’utilizzo di strumenti di finanza creativa e interviene come un’ombra a controllare l’economia. Non è un mistero che questo rigido intervento statale abbia dei risvolti non certo positivi sulla libertà, in particolare sulla mobilità e sull’attività delle persone. Tuttavia l’altra faccia della medaglia è quella della sinergia tra sistema bancario e produttivo che ha giovato al Paese. Ci si riferisce cioè in primis agli interventi mirati della Banca centrale cinese che hanno adottato con grande tempistica politiche monetarie espansive riducendo i tassi di interesse e stimolando così l’offerta di moneta delle banche alle imprese (e quindi investimenti e produzione di beni e servizi) e di sterilizzazione monetaria (assorbendo cioè la quantità di moneta in eccesso nel sistema finanziario che generava squilibri nella bilancia dei pagamenti). Le imprese locali , a controllo statale, godono di importanti politiche di investimento e puntano sull’innovazione tecnologica: l’importante presenza di realtà produttive a controllo statale ha contribuito a determinare politiche di investimento che fanno proprio il volano dell’innovazione tecnologica. Per converso si assiste alla fuga di giovani imprenditori che cercano nella delocalizzazione e nella manodopera a basso costo vantaggi che il paese natale non offrirebbe più loro. Motivo? L’orientamento pubblico dell’economia cinese è improntato al benessere collettivo e non al liberismo: in questo senso vanno tanto la pianificazione offerta dai Piani quinquennali quanto l’alto tasso di risparmio sui redditi (e perciò i bassi consumi). Perché i Cinesi puntano ancora su prodotti di largo consumo, aprendo qui da noi empori e negozi con articoli a basso costo è evidente: sfruttano il nostro morbo consumistico, ben consapevoli che lì da loro non c’è spazio per tendenze del genere. A Napoli molti quartieri sono stati “colonizzati” dai cinesi che, approfittando del caro affitti ma anche della forte presenza etnica investono i loro capitali in maniera massiccia. Già da qualche tempo si assiste al fenomeno di dipendenti italiani e datori di lavoro cinesi. Non mancano certo gli scontri con il popolo dei gialli, accusato spesso di essere sconosciuto al fisco. Sono solo voci? Un dato è certo: il ritmo lavorativo dei cinesi è davvero sorprendente e molti purtroppo sono stati gli operai che in settori come quello tessile sono arrivati a lavorare a nero fino a 16 ore al giorno per stipendi miseri . Prato docet.
Il vero problema è come affrontare il nuovo colosso cinese: bisogna aspettare inermi l’esplosione dell’attuale economia globalizzante o è il caso che l’Europa si rimbocchi le maniche e cessi di fare il gioco solo della grande finanza e delle Banche?Stiamo ancora attendendo che si vada verso la giusta direzione: quella di un’Europa unita. In tutto.