Oggi ci è venuto a trovare il fantasma di Pino Daniele: dissertiamo su Napoli. Lo chiamano “l’uomo in blues” i suoi fan, cantante e musicista napoletano che, nel campo musicale non ha bisogno di presentazioni. Si deve a lui la nascita di quel filone che va sotto il nome di “Neapolitan Power”, cui si sono poi integrati cantautori del calibro di Enzo Avitabile, James Senese, Enzo Gragnaniello, Tullio De Piscopo, 99 Posse, 24 Grana, Almamegretta, Bisca, per citare quelli più noti. Cosa sta a significare “Neapolitan Power”, la versione napoletana alla Black Power statunitense degli anni sessanta-settanta? La potenza plebea della musica, mi dice. È il contrario dello stereotipo di una cartolina che vuole Napoli identificata con pizza, sole e mandolino. Invece esso è un discorso contrario allo stereotipo, è una presa di posizione contro la questione meridionale (non ancora del tutto sopita) e l’arretratezza di alcune zone, specie quelle periferiche della città, dove emerge lo stereotipo della malavita organizzata e del menefreghismo.
Questa musica, anzi, questa filosofia di vita, nata tra gli anni ’70-’80, dà luogo ad «un eccesso supplementare non rappresentato e subalterno, che persiste e resiste nel suono, nel gusto, nel divenire affettivo della vita quotidiana» (I. Chambers, Mediterraneo blues. Musiche, malinconia postcoloniale, pensieri marittimi, Bollati Boringhieri, 2012, p. 18).
«Laddove la cartolina vuole i napoletani rappresentati con pizza e mandolino, proiettati lungo piani inclinati e scorciatoie di cliché e luoghi comuni, poeti e musicisti del Neapolitan Power hanno recuperato il volgare, il folclore, il sincretico per squadernare lo spazio identitario da elementi nocivi quali la chiusura nel vicolo cieco delle concezioni duali: moderno – arretrato, sviluppo – sottosviluppo» (F. Festa, Neapolitan Power: la potenza plebea della musica, in «Alfabeta 2», 25 gennaio 2015), con l’aggiunta di suoni black, africani, reggae, blues, rock, e una lingua napoletana contaminata dall’italiano e dall’inglese, commisti a suoni della nostra tradizione.
Il più rappresentativo è senza dubbio Pino Daniele, il quale con l’album Nero a metà del 1980, coglie in pieno questa filosofia, sottolineando il rapporto con la città in continuo divenire, andando al di là delle apparenze, riformando la cultura che dà voce a chi gli è stata soffocata da quella borghesia collusa con un clientelismo egemone politico e del malaffare (non dimentichiamo che a Napoli si è affermato il “laurismo”, una gestione politica senza regole), dove i cittadini napoletani sono considerati subalterni. Pino Daniele tenta di dare loro la dignità che meritano, facendoli diventare protagonisti. Può la musica riuscire in tutto questo? Chiediamolo allo stesso Daniele.
Le sue canzoni parlano dei problemi di Napoli, almeno negli album d’esordio. Ma possono dare voce ai subalterni le canzoni, a chi voce non è ha?
Con una forte azione contrapposta, senza voltarsi dall’altra parte. Ci vuole cazzimma, però, perché questa società ti costringe a difenderti in ogni ambiente. Ma neanche esiste più un ambiente musicale: ogni dieci anni cambia tutto radicalmente e tu devi attaccarti alle cose che non ti fanno deragliare.
A 18 anni ha scritto quello che oggi si può definire un inno, anche se qualcuno l’ha etichettato come negatività: Napule è.
Negativo per chi è abituato a girare la faccia dall’altra parte, contro le intolleranze e i soprusi. La verità non sempre viene apprezzata.
Napoli oggi è ancora una carta sporca come recita un verso della sua canzone?
Sì, ma non nel senso di strade sporche, monumenti imbrattati da segni vandalici, o il mare che puzza di catrame. Non saremo mai degli svizzeri in questo senso. È ancora sporca perché hanno sporcato la dignità del napoletani, hanno sporcato il loro futuro.
Che ruolo ha assunto in questo degrado la politica cittadina?
Disastroso, è evidente. Prendiamo la zona est della città, cioè Barra-Ponticelli-Sangiovanni a Teduccio, dopo la dismissione delle raffinerie, è rimasta ancora una “carta sporca”. Stessa cosa dicasi per Bagnoli, ancora in attesa di vedersi bonificata la zona ex Italsider. Senza parlare poi di Scampia: le “vele” mi risulta che stiano ancora là, a difesa della criminalità.
Qualcuno le critica il fatto di aver tradito la sua Napoli, andando a vivere altrove. Cosa ha da dire a queste persone?
La musica è tutto quel che ho, grazie a Napoli. Però Napoli è per gente comuni. Quando diventi un grande non puoi più viverci. Avete visto la fine che ha fatto Maradona, per esempio! E uno come me, che ha vissuto in zone di camorra, prima o poi avrebbe fatto la stessa fine. Se mi si critica questo, allora vanno criticati anche Totò, i De Filippo, Massimo Troisi e altri.
Si dice che le città di mare hanno una marcia in più. Che ne pensa?
Col porto da ristrutturare, non credo. E poi, come recita una mia canzone, chi tene ‘o mare ‘o sape ca nu tene niente.
Chi ha il mare non ha niente. Allora siamo davvero messi male?
Cosa può portare in più un mare che non sa nemmeno più di mare!
Ha una soluzione da consigliare ai suoi concittadini?
Mi verrebbe da consigliare di riderci sopra, alla Totò. Il padreterno, però, mi suggerisce di rivolgervi ad un buon negromante, no per trovare l’acqua (di questa ce ne è anche abbastanza) ma una via d’entrata nei problemi e affrontarli, senza girare la faccia dall’altra parte e soprattutto senza compromessi.