Gli ultimi dati elaborati dall’Istat, relativi al mercato del lavoro del secondo trimestre del 2017, fotografano la crescita da record del tasso di occupazione femminile: la cosiddetta ‘quota rosa’ tra i 15 e i 64 anni tocca infatti il 49,1%. Per la prima volta, a partire dal 1977, il tasso di occupazione delle lavoratrici cresce più di quello dei lavoratori. Ma siamo davvero di fronte ad una rivoluzione culturale del mercato del lavoro? O siamo forse davanti ad un effetto fisiologico che poco o nulla ha a che fare con un cambiamento della nostra forma mentis?
“In realtà l’immagine della donna intesa come angelo del focolare anziché come lavoratrice, nel nostro Paese, non è ancora scomparsa” spiega Carola Adami, CEO di Adami & Associati, agenzia di ricerca e selezione del personale. “Di certo le ultime rilevazioni Istat mostrano un discreto miglioramento, ma al di là di ogni possibile lettura ideologica, non si può di certo fare a meno di osservare che il gap esistente tra occupazione femminile e occupazione maschile resta comunque importante“.
I numeri, infatti, non mentono: nonostante tutto, infatti, il gap tra generi è ancora di 18 punti, appesantito da una crescita più lenta nel Meridione, dove il tasso di occupazione femminile è di soli 6,7 punti, sicuramente pochi rispetto al + 20 messo a segno dalle regioni settentrionali. “Se davvero vogliamo trovare il fattore che ha incentivato la crescita dell’occupazione femminile” ha dichiarato l’head hunter Carola Adami “dobbiamo guardare alla ripresa del settore dei servizi, settore che come è noto vanta un’alta presenza di lavoratrici“.
Per capire la situazione italiana, insomma, non basta fermarsi ai titoli dei quotidiani degli ultimi giorni, ma bisogna approfondire il discorso, magari confrontando i dati nazionali con quelli esteri. “Di certo quello della discriminazione di genere non è un problema solo italiano, basti pensare alla class action avviata da tutte le dipendenti californiane di Google contro il colosso dell’informatica” ha sottolineato Adami.
Nonostante le ultime note positive, infatti, quanto ad occupazione femminile l’Italia resta pur sempre penultimo nell’Unione Europea, con un -13,2% rispetto alla media degli altri Paesi. Dietro di noi, dunque, solo la Grecia. Non tutte le donne, poi, hanno le stesse opportunità di entrare nel mercato del lavoro: una candidata laureata e single, stando alle elaborazioni Istat, ha l’81% di possibilità di trovare e mantenere un lavoro, laddove questa percentuale si abbassa fino al 56,4% nel caso di una madre sprovvista di titolo di laurea. Il fattore studio è già di per sé estremamente pesante, in quanto in Italia le donne con la sole licenza media sono impiegate 2,5 volte in meno rispetto alle donne con un titolo di laurea. E la situazione peggiora ulteriormente per le donne sul mercato del lavoro in caso di maternità. Ancora oggi molte donne si ritrovano a dover scegliere tra famiglia e carriera, in quanto si tende a vedere nella maternità una sorta di aumento della fragilità in ambito lavorativo, laddove invece molti studi dimostrano come l’esperienza della maternità sia portatrice di nuove competenze, soprattutto trasversali.
Nel campo delle soft skills, infatti, la letteratura è concorde nell’attribuire alla lavoratrice-madre una maggiore capacità di guardare le situazioni dalla giusta prospettiva, distinguendo i problemi veri da quelli inutili che tanto spesso si creano in ufficio a causa delle criticità emotive dei dipendenti. Una madre è poi naturalmente portata ad avere spiccate capacità organizzative e gestionali, tutte caratteristiche peculiari che, in fase di ricerca e selezione del personale, non dovrebbero essere sottovalutate.
“Non bisogna poi dimenticare” ha aggiunto Adami “che anche la tipologia del titolo di laurea condiziona altamente le opportunità lavorative, e di certo il fatto che un’alta percentuale di donne risulti laureata in discipline a basso tasso di occupazione non gioca a loro favore“.