Negli Usa, dove l’allarme obesità ha da tempo superato il livello di guardia, alcune aziende pubblicano annunci chiedendo di inserire nel CV l’indice di massa corporea: l’unico stato in America ad aver legiferato contro la discriminazione delle persone in sovrappeso è il Michigan. Anche in Italia la situazione comincia a farsi seria. Da noi le persone che lottano con la bilancia sono oltre il 36% (gli uomini più numerosi delle donne, 45,6% contro 28,1%) e dal 1994 gli obesi sono aumentati del 25%. Oggi le persone in sovrappeso in Italia sono 6milioni, il 10% della popolazione.
Alcuni studi condotti nei decenni precedenti avevano messo in luce quanto i pregiudizi sull’obesità in ambito lavorativo si fondassero su alcuni stereotipi negativi frequentemente attribuiti alle persone grasse o sovrappeso quali l’essere pigri, poco coscienziosi, meno competenti o emotivamente instabili.
Una recente sentenza della Corte di giustizia UE nella causa C-354/13 FOA, tra Karsten Kaltoft / Kommunernes Landsforening (KL), per conto del Comune di Billund ha dichiarato che l’obesità patologica può comportare una «disabilità» ai fini della direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione.
Secondo l’avvocato generale Jääskinen, riporta il comunicato della Corte “mentre non sussiste un principio generale del diritto UE che vieti la discriminazione fondata sull’obesità in sé, l’obesità patologica può ricadere nel concetto di «disabilità» se è di un livello tale da ostacolare la piena partecipazione alla vita professionale o un livello paritario con gli altri lavoratori.
Ai fini di favorire il principio della parità di trattamento, la direttiva per la parità di trattamento in materia di occupazione1 stabilisce un quadro generale contro la discriminazione in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Ai sensi di tale direttiva, in materia di occupazione è vietata la discriminazione basata su motivi di religione, di credo, di disabilità, di età e di orientamento sessuale.
Inoltre, diversi articoli dei Trattati e della Carta dei diritti fondamentali riguardano la questione della discriminazione e della disabilità, segnatamente l’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea vieta “qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sugli handicap”. Nessuna di tali norme contiene un riferimento esplicito all’obesità.Karsten Kaltoft ha lavorato per quindici anni per il Comune di Billund in Danimarca come babysitter occupandosi, nel proprio domicilio, di bambini di altri, sino a quando è stato licenziato in data 22 novembre 2010. Il calo del numero di bambini veniva menzionato quale ragione del licenziamento, sebbene non fosse stata data una ragione esplicita per la scelta del sig. Kaltoft. Durante la sua occupazione il sig. Kaltoft non ha mai avuto un peso inferiore a 160 kg e, dato il BMI pari a 54, era pertanto considerato obeso. Benché l’obesità del sig. Kaltoft sia stata argomento di discussione all’audizione per il licenziamento, le parti sono in disaccordo quanto al modo in cui si è giunti a discuterne e il Comune nega che tale argomento abbia costituito parte della motivazione della decisione di licenziamento. Il sig. Kaltoft, comunque, considerando che il suo licenziamento trova origine in un’illegittima discriminazione nei suoi confronti in ragione del suo peso ha agito dinanzi ad un Tribunale distrettuale danese chiedendo il risarcimento dei danni conseguenti a tale discriminazione.Il Retten i Kolding (Tribunale di Kolding, Danimarca), nel corso dell’esame del ricorso del sig. Kaltoft, ha chiesto alla Corte di giustizia di chiarire se il diritto UE, segnatamente il Trattato e la Carta, includa un autonomo divieto di discriminazione in ragione dell’obesità. In subordine, chiede se l’obesità possa essere qualificata quale disabilità e pertanto ricada nella sfera della nella direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione.Nelle sue conclusioni odierne, l’avvocato generale Niilo Jääskinen sottolinea che nessuno degli articoli del Trattato o della Carta si riferisce espressamente all’obesità quale ragione, vietata, di discriminazione.
Pertanto, un siffatto divieto potrebbe sussistere solo quale parte di un divieto generale di qualsivoglia tipo di discriminazione nel mercato del lavoro, derivante dal tenore indeterminato dell’articolo 21 della Carta. La Carta, comunque, è vincolante per gli Stati membri solo quando questi ultimi attuano il diritto UE, e non sussisteva alcuna indicazione nel senso che la Danimarca stesse attuando una disposizione di diritto UE posta a fondamento di un divieto generale di discriminazione nel mercato del lavoro.
L’avvocato generale sottolinea che tutti gli atti normativi dell’Unione che vietano comportamenti discriminatori si riferiscono a specifiche ragioni di discriminazione nell’ambito di determinate aree tematiche, piuttosto che precludere qualsiasi trattamento discriminatorio in termini generici. L’avvocato generale Jääskinen, pertanto, conclude che non sussiste un autonomo divieto generale di discriminazione in ragione dell’obesità nel diritto UE. Quanto alla questione se l’obesità possa essere classificata quale «disabilità» secondo la direttiva per la parità di trattamento in materia di occupazione, l’avvocato generale sottolinea che, mentre il concetto di disabilità non è definito dalla direttiva, la Corte ha statuito che una «disabilità» in tale contesto si riferisce a limiti risultanti da menomazioni durature fisiche, mentali o psicologiche che, interagendo con svariati ostacoli, possono limitare la piena ed effettiva partecipazione della persona ad una vita professionale su base paritaria con altri lavoratori. Anche se non ogni infermità ricadrebbe in tal modo nell’ambito di tale nozione di disabilità, talune infermità, se diagnosticate clinicamente e risultanti in limitazioni durature, possono essere classificate quali disabilità ai fini della direttiva.
L’avvocato generale Jääskinen evidenzia che la disabilità risulta dall’interazione tra le persone con menomazioni e gli ostacoli di atteggiamento ed ambientali che limitano la loro piena ed effettiva partecipazione sul luogo di lavoro. Dato che la direttiva è intesa a lottare contro ogni forma di discriminazione fondata sulla disabilità, non deve effettuarsi alcun collegamento tra il lavoro considerato e la disabilità in questione. Anche se una condizione non incide sulla capacità di quella persona di svolgere lo specifico lavoro in questione, può ancora sussistere un impedimento alla piena ed effettiva partecipazione su base paritaria con gli altri. Possono sussistere menomazioni durature, fisiche, mentali o psicologiche, che non rendono impossibili taluni lavori, ma che rendono lo svolgimento di quel lavoro o la partecipazione alla vita professionale oggettivamente più difficili e impegnativi. Tipici esempi in tal senso sono costituiti da handicap che pregiudicano gravemente la mobilità o riducono in modo significativo sensi quali la vista o l’udito. Pertanto, non occorre che sia impossibile per il sig. Kaltoft svolgere il proprio lavoro di babysitter per il Comune di Billund perché questi possa fondarsi sulla tutela contro la discriminazione fondata sulla disabilità fornita dalla direttiva. L’avvocato generale chiarisce che, pur non sussistendo alcun obbligo di mantenere l’impiego di un individuo che non sia in grado di svolgerne le relative funzioni essenziali, dovrebbero essere adottate misure ragionevoli per agevolare gli individui disabili a meno che l’onere per il datore di lavoro sia sproporzionato.
Pertanto, l’avvocato generale Jääskinen considera che l’obesità, se ha raggiunto un livello tale da ostacolare chiaramente la partecipazione alla vita professionale, può costituire una disabilità. A suo parere, solo un’obesità estrema, grave o patologica, vale a dire un BMI superiore a 40, potrebbe essere sufficiente a creare limitazioni, quali problemi di mobilità, resistenza e umore, che corrispondono alla «disabilità» ai sensi della direttiva.
Sarà compito del giudice nazionale determinare se l’obesità del signor Kaltoft ricada in tale definizione.Infine, l’avvocato generale aggiunge che non rileva l’origine della disabilità. La nozione di disabilità è oggettiva e non dipende dalla circostanza che il ricorrente abbia contribuito a causare la sopravvenienza della propria disabilità con un eccessivo apporto di energie «auto-provocato».
Diversamente ragionando una disabilità fisica risultante dall’avventata assunzione di rischi alla guida o nello sport sarebbe esclusa dalla nozione di disabilità”.