Ci sono giorni neri che confonderebbero un polpo o una seppia e così, volendo immaginare strategie di sopravvivenza potremmo non aprire la porta di casa e rintanarci al sicuro sotto pesanti coltri. Oppure possiamo ricordare una risata, un fatto bello e concentrarci su quello, aggrappandoci come faremmo se ci trovassimo sul sellino di uno scooter in picchiata lungo i vicoli dei Quartieri di Napoli, laddove addentano la vita come fosse ‘nu tarallo’ nzogna e pepe, caldo caldo. Ci son stata per davvero su quel sellino, tanti anni fa, in un tempo pieno di ‘fatti belli’.
La risata E chi se la dimentica? Piena, fragorosa, benedetta. Più di una risata, un’illuminazione! Il primo incarico lavorativo che mi fu assegnato circa venticinque anni fa fu una terapia logopedica domiciliare nei Quartieri Spagnoli. Come tutte le giovani reclute ero desiderosa di cimentarmi in imprese interessanti, avventurose e salvifiche. Arrivai con la funicolare al centro di Napoli e aiutandomi con lo stradario mi addentrai nel mondo parallelo e perpendicolare dei Quartieri Spagnoli, con prudenza e rispetto. Mi sentivo osservata di nascosto e grazie alle ‘dritte’ di un paio di anziani del posto, arrivai a destinazione.
Un basso soppalcato può equivalere ad un ossimoro? Credo fosse evidente il senso di ingenua sorpresa che mi si stampo’ in volto. Lì conobbi Giuseppina e pezzi della sua famiglia. Entrando nel basso percepii che lasciavo fuori Silvana e mi consegnavo ai nativi. La straniera, strana e stranita, ero io, ma ero anche la ‘dottoressa’ e così, compassionevolmente, mi accolsero e prepararono un buon caffè. C’erano tre generazioni di donne tra quelle mura: Giuseppina ‘a nonna, la nuora e la nipote quattordicenne. Giuseppina aveva subito un ictus che le aveva lasciato il braccio destro flaccido e le aveva tolto la parola. Nonostante gli esiti di una paralisi facciale aveva il volto tondo ed espressivo del buon umore.
Piccola di statura, mi accolse sotto la sua ala protettrice perché aveva intuito il mio disorientamento e la buona volontà. Purtroppo il danno neurologico era importante e aveva offeso sia la capacità di esprimersi verbalmente sia di comprendere la lingua… Già, ma quale lingua? Capii subito che non aveva mai parlato l’italiano, neppure letto e scritto, ma il napoletano, ad uso di quella realtà ristretta e antica. Fu un duro colpo per me, come potevo aiutarla se parlavamo due lingue differenti? Per fortuna la nuora, che aveva studiato, si offrì come interprete e iniziò una divertente triangolazione!
Quando arrivò il caffè Giuseppina si illuminò e io cominciai a ripetere “‘Cafe,’ o cafe’. Dopo qualche tentativo di ripetizione Giuseppina ci riuscì: ‘cafè!’ un piccolo trionfo! Dal giorno dell’ictus era la prima parola che riusciva a ripetere. Per il resto, nulla, solo farfugliamenti. Emozionata presi vari oggetti e provai nuovamente a stimolarla ma senza successo. Alla fine dalla fruttiera tolsi una bella arancia e gliela misi tra le mani ripetendo come un mantra “arancia, mm che profumo, arancia, arancia”.
Giuseppina mi restituì lo sguardo smarrito purtroppo tipico di alcune forme di afasia, ma improvvisamente si accese un’espressione diversa, contrariata, nervosa, verace ed esclamò a gran voce agitando la mano sinistra :”Purtuallo!” “Ua’ s’è ‘ncazzata’ a nonna, se chiama purtuallo!” e la nuora traduttrice iniziò a ridere mentre io balbettavo impressionata. Giuseppina guardò la nuora e poi me e scoppiò in una risata fragorosa! Rideva a crepapelle e mi contagio’.
Ridevo della mia dabbenaggine, anni di studi lasciati fuori alla porta, ridevo per Giuseppina perché quel ‘purtuallo’ rappresentava la prima vera, spontanea parola dopo mesi di silenzio. Ridevo e stavo bene. Quella risata mi tornava in gola sul sellino dello scooter, ‘o mezzo’, portato dalla nipote con la disinvoltura di un kamikaze per i vicoli: l’onore di essere riaccompagnata a casa suonava di marmitta truccata.
Foto di Flavio Ferraro per Cinque Colonne Magazine