(Adnkronos) – Succede ciclicamente, e ora più di frequente con i venti di guerra che soffiano sull’Europa: ogni volta che si agita lo spettro delle armi nucleari, sale comprensibilmente la paura della popolazione – nelle aree più vicine – e scatta la corsa alle pillole di iodio. Come sta accadendo proprio in questi giorni in Danimarca, dove si è registrato un boom di acquisti dopo che l’agenzia nazionale per la gestione delle emergenze ha pubblicato una serie di consigli su come proteggersi da una eventuale emergenza nucleare, e i cittadini hanno interpretato questo come un segnale che il rischio è diventato più alto. Ma come funziona lo ioduro di potassio, perché se ne parla in relazione alle minacce nucleari? E cosa dicono le autorità sanitarie internazionali al riguardo?
Regola numero uno: no al fai-da-te, ribadiscono gli esperti. Lo chiarisce la stessa Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nel suo portale, in un focus pubblicato tra l’altro di recente. “Durante un incidente nucleare – spiega – può essere rilasciato nell’ambiente iodio radioattivo sotto forma di pennacchi o nubi e successivamente contaminare suolo, superfici, cibo e acqua. Potrebbe depositarsi sulla pelle e sugli indumenti, provocando un’esposizione esterna alle radiazioni. Se viene inalato o ingerito, provoca un’esposizione interna alle radiazioni”. Quando lo iodio radioattivo entra nell’organismo, “si accumula nella ghiandola tiroidea nello stesso modo in cui farebbe lo iodio stabile non radioattivo”, perché questa ghiandola che usa lo iodio per produrre ormoni non distingue tra iodio radioattivo e iodio stabile.
Pillole iodio: come funzionano
Assorbire odio radioattivo “può aumentare il rischio di cancro alla tiroide in particolare nei bambini”, si legge nel focus dell’Oms. Come si riduce il rischio di esposizione? Ecco che entrano in gioco le pillole. “La ghiandola tiroidea può essere protetta dallo iodio radioattivo saturandola con iodio stabile (non radioattivo). Questa misura protettiva nota come ‘blocco tiroideo con iodio stabile’ consiste nella somministrazione di compresse di ioduro di potassio (KI) prima o all’inizio dell’esposizione allo iodio radioattivo. Se assunto al dosaggio appropriato ed entro il corretto intervallo di tempo rispetto all’esposizione, il KI satura la ghiandola tiroidea con iodio stabile e di conseguenza lo iodio radioattivo non verrà assorbito e immagazzinato”.
Ma è questo un antidoto alle radiazioni? “No – risponde l’Oms nel focus – Il KI non è un antidoto per l’esposizione alle radiazioni. Protegge solo la ghiandola tiroidea e solo se esiste il rischio di esposizione interna allo iodio radioattivo (ad esempio, un incidente in una centrale nucleare)”. Ma “non protegge da altre sostanze radioattive che potrebbero essere rilasciate nell’ambiente a seguito di incidente nucleare; non protegge dalle radiazioni esterne e non impedisce allo iodio radioattivo di entrare nell’organismo, ma ne impedisce solo l’accumulo nella tiroide”.
Come assumere il KI
Il KI, puntualizza ancora l’Oms, “non dovrebbe essere preso come misura protettiva generica in previsione di un evento. Le compresse devono essere assunte solo quando esplicitamente indicato dalle autorità sanitarie pubbliche. L’efficacia per il blocco della tiroide dipende dalla tempestiva somministrazione. Il periodo ottimale di somministrazione di iodio stabile è inferiore a 24 ore prima e fino a 2 ore dopo l’inizio previsto dell’esposizione. Sarebbe comunque ragionevole assumere il KI fino a 8 ore dopo l’esposizione. Tuttavia, assumerlo dopo 24 ore dall’esposizione non offrirà alcuna protezione”. La dose corretta varia in base all’età e una singola dose solitamente offre protezione adeguata per 24 ore. Insomma, l’utilizzo deve essere guidato e mirato, non è la panacea di tutti i mali e per questo gli esperti sconsigliano il fai-da-te.
Come ha avuto modo di evidenziare il farmacologo Silvio Garattini, “le pillole allo iodio, come ormai diciamo da tempo, non servono a nulla contro le radiazioni nucleari” legate al rischio dell’utilizzo della bomba atomica. “L’accaparramento non ha senso”. L’unica soluzione è “evitare una catastrofe nucleare”, evitare “escalation”. Affronta l’argomento sul portale del Policlinico Gemelli anche l’endocrinologo Alfredo Pontecorvi, in un intervento di qualche tempo fa. “In caso di incidente nucleare, qualora fossero liberate nell’aria grandi quantità di iodio radioattivo, e, ci tengo a precisarlo, esclusivamente in questa evenienza, sarebbe opportuno distribuire alla popolazione lo ioduro di potassio. Questo, tuttavia, andrebbe somministrato al corretto dosaggio. Come fu intelligentemente fatto in Polonia, dopo l’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl del 1986, o dai giapponesi, dopo il terremoto di Fukushima del 2011”.
Va poi tenuto presente, evidenziava ancora l’esperto, che “l’eventuale supplementazione di iodio andrebbe a proteggere solo dall’assorbimento degli isotopi radioattivi dello iodio – che hanno comunque una breve emivita, da 1 a 4 settimane – ma non proteggerebbe certo dagli altri isotopi radioattivi emessi”, quali ad esempio il Cesio-137, “che viene incorporato in tutti i tessuti con un’emivita di circa 30 anni”, o il Plutonio-239, “che ha una spaventosa emivita di oltre 24.000 anni”. —cronacawebinfo@adnkronos.com (Web Info)