“Ni una menos”, il grido levatosi per la prima volta in Argentina contro la “violenza di genere” ha percorso il mondo ed è sbarcato in Italia. “Non una meno”, per affermare la volontà determinata di condannare senza attenuanti il femminicidio che insanguina le nostre società.
In tutta l’America Latina, dove il fenomeno ha assunto proporzioni allarmanti, anche di fronte all’inefficienza dei governi di affrontarlo con programmi istituzionali adeguati e misure preventive efficaci, il movimento delle donne in difesa della loro vita, si è accompagnato con la pubblicazione, in ogni paese, di un libro, “Basta”, che ha raccolto racconti brevi, sia di donne che di uomini, in una convocazione aperta alla scrittura sopra il tema della violenza sulle donne, discusso in centri sociali, università, quartieri, ovunque le donne abbiano sentito l’esigenza di riunirsi per tutelarsi, difendersi, trovare soluzioni a questa insana mattanza, chiedere volontà politica di affrontare il problema come prioritario.
Il 25 novembre è stato proclamato giornata mondiale contro questo tipo di violenza e il 26 novembre si terranno nel nostro paese numerose manifestazioni. L’organizzazione è gestita dalla rete “Non una di meno”, promossa da Donne in rete contro la violenza (D.i.re), Io decido e Unione donne in Italia (Udi). Non sarà solo un’occasione per contare le vittime e ricordarle ma, come dicono le organizzatrici della manifestazione romana, anche un’occasione per riconfermare la necessità di una giustizia sociale che finalmente ponga le donne, per ciò che riguarda i loro diritti, sullo stesso piano dell’uomo. Il fenomeno della violenza si alimenta infatti in una società che comunque accetta implicitamente un’idea di sudditanza del femminile al maschile in svariati campi: intellettivo, lavorativo, sessuale. Non è in nessun modo un fatto privato, ma un fatto sociale.
La richiesta infatti che si porterà avanti di creare un piano “femminista” ad ampio spettro contro la violenza maschile, che porti alla revisione del piano antiviolenza adottato dal governo italiano nel 2015, vuole abbracciare un’analisi esaustiva del fenomeno che ne individui tutte le radici, la necessità di strategie educative adeguate a ridefinire il “femminile”, il “maschile” e le loro reciproche relazioni, l’ammissione dell’urgenza del fenomeno: una donna su tre in Italia è vittima di violenze psicologiche, fisiche, e sessuali e molte di queste violenze portano, se non fermate a tempo, al femminicidio. Fermarle significa educare gli uomini, le donne, le forze dell’ordine, l’intero apparato della giustizia, la società tutta nella consapevolezza della gravità di un fenomeno che attraversa tutti gli strati sociali e che soprattutto si annida perversamente tra le mura domestiche. La maggior parte delle donne viene aggredita e uccisa in ambito domestico, dall’ ”amato nemico” che spesso si ostina a difendere perché educata alla sottomissione, all’accettazione delle ragioni dell’altro, per quanto perverse, prima che delle proprie. Quando trova il coraggio della ribellione e della denuncia presso l’autorità giudiziaria, spesso si trova davanti un muro d’incomprensione e di ostracismo, un aiuto inadeguato e viene rimandata tra le braccia del proprio carnefice con consigli di accettazione e mediazione, come se la responsabilità della violenza subita ricadesse in parti uguali sulla vittima e sul carnefice.
Solo nei centri specifici antiviolenza sparsi nel territorio la donna trova adeguata assistenza, ma questi centri sono insufficienti come numero e a rischio di chiusura per il taglio di risorse economiche che vengono dirottate altrove. Per esempio il Servizio SOS Donnaa Roma è stato chiuso recentemente lasciando circa 300 donne abbandonate a se stesse.
Crediamo comunque che non si possa sempre e solo lavorare sull’emergenza, ma si debba sradicare la cultura “maschilista” su cui questi abusi si poggiano e da cui ricevono giustificazione “culturale”. Cominciando da un’educazione alla parità e al rispetto della donna nella casa, nella scuola, nei giornali, in ogni mezzo di comunicazione di massa, in internet. La responsabilità di quanti fanno opinione è enorme. Bisognerebbe partire dal linguaggio, il cui sessismo è manifesto e da molti accettato come ininfluente, anche da chi a volte in altre sedi combatte per l’uguaglianza di genere. Ugualmente bisognerebbe lavorare sull’immagine della donna proposta da giornali, televisione, ove la si mostra come un oggetto da possedere, la cui identità viene costruita soprattutto sui meccanismi del desiderio maschile.
Moltissime sono le strade da percorrere per costruire nella coscienza sociale una identità del femminile che sia anzitutto un’identità pienamente umana e una dignità inattaccabile. Ben venga ogni mezzo che non si limiti solo alla denuncia della sopraffazione e della violenza ma costruisca strumenti per cancellarla dalle relazioni umane, che divenga impegno e volontà di donne e di uomini, di istituzioni, di governi, dell’intero tessuto sociale dentro il quale ci troviamo a vivere.