Parlare della violenza di genere, che abbraccia dagli insulti ai maltrattamenti fino al delitto, non ci sembra una questione che riguardi solo le donne ma tutta la società che ospita questa piaga del comportamento umano. Crediamo che chiunque sottovaluti il problema e molti lo fanno, sia i singoli che le strutture sociali e politiche, tenti solo di minimizzare un fenomeno che ha invece proporzioni mondiali. Cominciamo con analizzare la situazione nel nostro Paese. Basta consultare i dati rilasciati dal Ministero degli Interni a disposizione di tutti su internet, per renderci conto della necessità che ha indotto a coniare il neologismo “femminicidio”, termine inviso a molti che per una malintesa “par condicio” vorrebbero fosse utilizzato anche “maschicidio”, per indicare l’omicidio di uomini da parte delle donne. A parte la evidente spoporzione tra i due fenomeni che possiamo riscontrare consultando i dati rilevati da Istat e Ministero degli Interni oltre che dalle Associazioni di donne che studiano il fenomeno e lo affrontano sul campo, non si tiene conto del significato dato al termine femminicidio che rende differente la natura delle due tipologie di delitto, quella contro le donne e quella contro gli uomini.
Con questo non intendiamo sostenere che la violenza contro gli uomini sia giustificabile e siamo perfettamente coscienti che altre miserie, ingiustizie, sopraffazioni abitano il mondo, e parlare di femminicidio non è certo un modo di ignorarle, ma come persone, come cittadini e come donne vogliamo solo identificare le ragioni di un fenomeno che ha radici socio-culturali completamente differenti dai delitti perpetrati per ragioni economiche, di potere, di vendetta, per lo più all’interno di episodi di normale delinquenza come aggressioni, rapine, etc. o crimini della malavita organizzata, che sono le cause più frequenti di morte per gli uomini. Nel femminicidio invece sono implicati valori che la società accetta e che diventano l’humus del quale il delitto contro le donne si nutre.
Nonostante alcune significative conquiste del mondo femminile, soprattutto nei paesi dell’Occidente, siamo ancora lontani dal riconoscere alla donna la parità con l’uomo sia nel privato che nel pubblico. Il maschilismo imperversa ad ogni livello della società e si traduce in comportamenti che umiliano la donna e la sottopongono a vessazioni e ingiustizie che la rendono comunque succube e la costringono a uno stato di inferiorità, se non giuridica, certo sociale. Spesso la donna stessa accetta questa umiliazione come naturale, non discutibile, anche perché quasi sempre ogni violenza viene perpetrata in ambito familiare e la donna psicologicamente e attraverso l’educazione impostale tende a proteggere anche a suo discapito il nucleo familiare, a non rivelarne al di fuori le mancanze, a riconoscere l’autorità maschile su di sé come leggittima. Chiunque abbia lavorato con vittime di violenza di genere sa quanto sia stato difficile e sia difficile per queste donne, le fortunate che non hanno incontrato la morte, liberarsi della loro schiavitù psicologica verso mariti e conviventi o ex che sono nella quasi totalità responsabili dei femminicidi.
Perché la morte arriva quasi sempre dopo anni di maltrattamenti fisici e psicologici durante i quali le donne non trovano adeguata comprensione e difesa né in ambito familiare né in ambito giuridico. La loro richiesta d’aiuto viene spesso sottovalutata e ignorata fino all’irreparabile. I continui maltrattamenti ne minano l’autostima, rendendole vittime incapaci di reagire e se, a un loro primo tentativo di uscirne fuori, non sono sostenute come dovrebbero scivolano nell’ineluttabile accettazione della loro miseria umana fino alla morte. Come ha riconosciuto lo stesso Cardinal Gianfranco Ravasi, arcivescovo e teologo presidente del Pontificio Consiglio della cultura, che ha dichiarato, in un’intervista rilasciata ad Andrea Tornelli nell’ottobre del 2017, che le donne sono per lo più vittime di un malinteso senso del possesso che nelle nostre società regala agli uomini il diritto al controllo su di loro, specie se legate da rapporti sentimentali e familiari. Quindi all’origine del fenomeno c’è un preciso elemento culturale, quello di cui parla Martin Buber, filosofo del dialogo e scrittore, che, nella sua opera emblematica “Inch und Du” (Io e Tu) ci parla di due tipi di relazione nell’ambito delle società umane: quella ”io-tu” e quella “io-esso” Nella prima l’altra persona è un tu percepito come paritario all’io; nella seconda l’altro è un oggetto. Nel caso del femminicidio il maschio considera la donna come il suo ”esso”, ossia cosifica la persona riducendola a un oggetto.
Le donne sono perfettamente consapevoli di questo e aver coniato il termine femminicidio, che infastidisce molti, specie uomini, è un modo per mettere il fenomeno proprio al centro di un dibattito socio-culturale ormai necessario. Non è in nessun modo una dichiarazione di guerra al “maschio” in quanto tale, ma una richiesta di assunzione di responsabilità da parte di una società che alimenta, permette, giustifica il fenomeno e certo è, come deve essere, un grido legittimo e una ribellione contro chiunque eserciti questa violenza o la legittimi sotto qualsiasi forma. Poiché nessun dialogo è possibile se non tra pari che tali si considerino. Nessuna donna può dialogare o scendere a patti con un uomo o una società che la consideri “un oggetto”. Per qualcuno la ribellione degli oppressi quando assume toni decisi è violenza, per noi è solo legittima lotta, difesa della propria dignità e vita.
Il termine è stato coniato per definire l’omicidio di una donna per motivi basati sul genere, in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte. Per la prima volta utilizzato nel 1992 da Diana E. H. Russell, nel libro scritto insieme a Jill Radford Femicide: The Politics of woman killing, nel termine femmicidio si identifica una categoria criminologica vera e propria: una violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna «perché donna», in cui cioè la violenza è l’esito di pratiche misogine. A approfondire ulteriormente il neologismo e scavare nel fenomeno è stata soprattutto la società sudamericana. L’antropologa Marcela Lagarde, rappresentante del femminismo latinoamericano e tra le prime teorizzatrici del concetto di femminicidio, ha scritto nel 1997:
«Il femminicidio implica norme coercitive, politiche predatorie e modi di convivenza alienanti che, nel loro insieme, costituiscono l’oppressione di genere, e nella loro realizzazione radicale conducono alla eliminazione materiale e simbolica delle donne e al controllo del resto. Per fare in modo che il femminicidio si compia nonostante venga riconosciuto socialmente e senza perciò provocare l’ira sociale, fosse anche della sola maggioranza delle donne, esso richiede una complicità ed un consenso che accetti come validi molteplici principi concatenati tra loro: interpretare i danni subiti dalle donne come se non fossero tali, distorcerne le cause e motivazioni, negarne le conseguenze. Tutto ciò avviene per sottrarre la violenza contro le donne alle sanzioni etiche, giuridiche e giudiziali che invece colpiscono altre forme di violenza, per esonerare chi esegue materialmente la violenza e per lasciare le donne senza ragioni, senza parola, e senza gli strumenti per rimuovere tale violenza. Nel femminicidio c’è volontà, ci sono decisioni e ci sono responsabilità sociali e individuali.»
In Italia e nei paesi della UE non esiste una definizione giuridica di femminicidio, che non costituisce uno specifico reato o tipologia codificata di reato, a differenza di quanto avviene in diversi paesi dell’America Latina. Rappresentando, tuttavia, un fenomeno di rilevante interesse nel dibattito pubblico, esso viene misurato a scopo statistico in base alla relazione tra la vittima dell’omicidio e il suo autore. Tale scelta è stata anche condivisa a livello internazionale.
Nel 2017 viene istituita dal Senato la Commissione parlamentare di indagine sul femminicidio nonché su ogni forma di violenza, per analizzare il fenomeno in Italia e trovare soluzioni per arginare un problema grave e strutturale. La Presidente Francesca Puglisi insieme a 19 senatrici e senatori svolgono i lavori nell’ambito della delibera istitutiva del 18/01/2017.
La Commissione si vale di un gruppo di esperti dell’Istat, sotto la direzione di Giorgio Alleva, e dell’UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime) per la definizione e l’implementazione della Classificazione Internazionale dei reati (ICCS – International Classification of Crime for Statistical Purposes) che ha riconosciuto il femminicidio come un omicidio di una donna compiuto nell’ambito familiare, ovvero dal partner, da un ex partner, o da un parente.Nel 2017 l’UNDOC (United Nations Office on Drugs and Crime) , l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, lancia la piattaforma mondiale di monitoraggio e raccolta dati dei femminicidi in tutto il mondo.
(continua)