Simona Ruffino è autrice del libro “Neuromarketing Etico” edito da Hoepli, consulente speaker e formatrice. Brand strategist & Neurobrand specialist, la sua preparazione nel settore la rende tra le figure più note ed autorevoli.
La nostra intervista è un viaggio nel neuromarketing e le sue applicazioni. Simona ci racconta anche come la comunicazione e quindi le scelte del consumatore, possano essere orientate, attraverso bias cognitivi e pregiudizi di genere maschili e femminili che influiscono sulle scelte per semplificazione…
Esistono davvero “cose” da uomini e “cose” da donna? Prima di rispondere a questa domanda proviamo a capire qualcosa di più sul neuromarketing.
Che cos’è il neuromarketing in poche parole?
“Il neuromarketing è una disciplina plurale che mette sotto il suo cappello una moltitudine di competenze tra cui: la neurofisiologia, la filosofia, il design, la semiotica, la semantica, la statistica, il marketing tradizionale, la psicologia cognitivo comportamentale, l’economia comportamentale. È una disciplina che parte da principi di complessità. Serve ad indagare i bisogni, le attese e i desideri delle persone, affinché i brand possano costruire la propria identità e quindi prodotti e servizi che siano realmente utili per il consumatore”
Rispetto alla complessità di questa disciplina, quando e perché è utile per un’azienda affidarsi al neuromarketing?
“Devo prima fare una precisazione, il neuromarketing sta dentro il segmento delle neuroscienze, ma il neuromarketing viene confuso con il neurobranding. Sono due discipline diverse sebbene assolutamente complementari. Servono l’una all’altra e coprono il vasto segmento delle neuroscienze applicate. Il neuromarketing è la parte disciplinare relativa all’indagine (dell’analisi) e può essere sia predittiva che laboratoriale (scientifica).
Quest’ultima si realizza attraverso test, come l’analisi biometrica, oculare o elettroencefalogramma. Il neuromarketing in forma predittiva invece si applica attraverso l’applicazione delle teorie cognitivo comportamentali e la Neurofisiologia.
Quindi prima viene l’indagine (il neuromarketing) e poi il neurobranding il quale in una fase successiva, consente di ottimizzare tutti i manufatti di comunicazione, costruire packaging correttamente percettibili, spot televisivi neuro ottimizzati e qualsiasi tipo di contenuto. Il neuromarketing ed il neurobranding sono la conseguenza l’uno dell’altro e le aziende li scelgono nella loro interezza. Sono fondamentali per gli imprenditori al fine di rendere intelligenti gli investimenti, centrare la brainy persona di riferimento (il vecchio target) e quindi per comprendere i bisogni del pubblico affinché si progetti un’ offerta congrua e spendibile.”
A seguito di tutte queste analisi e studi comportamentali, possiamo dire da consumatori che la nostra è sempre una scelta consapevole ?
“No! Assolutamente! Le nostre scelte si avverano il 95% delle volte in maniera inconscia. Scegliamo con il nostro cervello primitivo ed istintivo. Ovviamente quando la scelta è più complessa, soprattutto se riguarda orientamenti all’acquisto di beni di profilo economico maggiore, subentra il cervello razionale che va a razionalizzare. Sistema uno e Sistema due. Il Nobel Kahneman insegna.
I processi cognitivi che intervengono nelle scelte di acquisto sono molteplici: l’attenzione, la memoria, la percezione e tutti convergono nella creazione di quello che tecnicamente si chiama prodotto cognitivo. Il nostro cervello ad ogni modo è sempre in un costante lavoro di valutazione costi-benefici e si scontra costantemente con i bias cognitivi – errori sistemici del pensiero-. In effetti i bias e le euristiche sono la causa di molti mali della nostra società contemporanea anche per il marketing, perché c’è chi li usa in forma manipolativa per attivare un bisogno non presente nelle persone. Invece garantisco che possono essere utilizzati in forma etica rafforzando un bisogno già esistente e consentendo maggiore trasparenza. Tutto questo fa molto bene ai brand: una reputazione di acciaio è il buon dna per qualsiasi impresa. ”
Ci puoi dire qualcosa di più sul neuromarketing etico e sulla sua applicazione?
“Si certo, io ho scritto un libro che si chiama “Neuromarketing etico”. Il neuromarketing è stato vittima di un misunderstanding per molti anni: i più per moltissimo tempo hanno immaginato che si trattasse di una sorta di “magheggio”. Laboratori, elettrodi, test per “leggere la mente delle persone”. In realtà non c’è idea più sbagliata, innanzitutto perché nel nostro cervello non esiste un’area cerebrale che se stimolata produce un’azione che può essere predeterminata dalla volontà di un’altra persona. In merito alla parola etica credo vada accostata a qualsiasi campo e che il marketing e la comunicazione possono avere intenti nobili o manipolativi, come tutto.”
Secondo le definizioni di neuromarketing che ci hai fornito, quali sono gli elementi che influiscono sulle nostre scelte?
“I motivi per cui scegliamo una cosa piuttosto che un’altra sono molteplici: in primis mi vengono in mente i nostri bisogni. Questi si possono dividere in edonistici o utilitaristici.
I primi sono quelli che fanno più presa, che vengono maggiormente pungolati: fanno riferimento al nostro bisogno squisitamente umano di fare parte di qualcosa in cui ci riconosciamo, di sentirci accettati dagli altri, di essere all’altezza dei modelli di riferimento.
Mettiamo a fuoco quali sono i meccanismi che orientano all’acquisto di un’automobile, di un capo di abbigliamento o di un prodotto di cosmetica. Pensiamo a quanto influisce in tutto questo meccanismo l’influenza sociale procurata dall’influencer marketing.
Un tempo si diceva che ad orientare i consumi fosse il bisogno di sicurezza, oggi probabilmente questo bisogno è stato sostituito da quello di felicita che ha sdoganato la comunicazione dell’effimero attraverso i social media.
Il bisogno di felicità viene insinuato da una narrazione patologica in cui tutti hanno vite perfette lasciando ai margini la vita vera.
Un altro fattore determinante, che evinco sempre più di frequente, come primario nell’orientamento all’acquisto è il tempo. Il tempo è una metrica di valutazione notevole per le persone in questo momento storico. Le persone sono disposte a spendere più denaro in funzione di guadagnare maggior tempo a disposizione per impiegarlo in qualcosa che abbia per loro maggiore valore.
Aggiungo anche che oggi è necessario rivedere la modalità in cui i brand scelgono il modo in cui viene costruire la propria l’influenza. È una metamorfosi in corso. Le aziende devono dar voce a contenuti più alti ed investire su personaggi di maggior valore, lavorare sulla propria identità di brand, investire sulla costruzione della propria vision e mission per poi declinarli con i giusti influencer e testimonial. Complessità: questa è la parola del futuro.”
Sempre in merito alle scelte consapevoli, quelle effettuate da uomini e donne possono essere determinate da bias cognitivi? E’ corretto dire che è il mercato a differenziarle selezionandole per noi?
“Le scelte sono spesso l’esito di stereotipie. Gli stereotipi a loro volta sono il frutto della semplificazione eccessiva, della cattiva informazione, forse persino della eccessiva informazione. Tu mi chiedi una differenziazione tra scelte di uomini e scelte di donne: il mondo in realtà non è binario e lo sviluppo cognitivo comportamentale di ogni individuo può portare con sé moltissime sfumature. Ma una cosa è vera: siamo fatti diversamente dal punto di vista ormonale, cognitivo, emotivo. Una ricerca recente ha rilevato come lo sviluppo emotivo del neonato maschio sia più lento di quello femmina. La cultura in cui siamo immersi ha sicuramente influenzato le scelte attraverso la stereotipia dei ruoli femminili e maschili. Entrambi sono frutto di una cultura patriarcale che viene da molto lontano. Dal punto di vista delle scelte cognitive queste certamente vengono orientate da una comunicazione a sua volta estremamente stereotipata. Questa, se reiterata, si trasforma in un modello sociale. Quindi da un lato abbiamo la Neurofisiologia e dall’altro la cultura in cui siamo immersi.”
È corretta quindi l’affermazione “Questa è una cosa da uomini o una cosa da donne”?
“No, non ci sono “cose” da uomini e “cose” da donne. Ci sono simboli, toni di voce, parole, che vengono utilizzati per puntare ad un certo segmento di pubblico. Non esiste qualcosa di spiccatamente per uno o per l’altro. Esistono però le categorie, le nicchie, le persone che si accomunano per caratteristiche o preferenze. Non a caso l’errore numero uno della comunicazione è pretendere di comunicare a tutti. Quando si prova a farlo si ottiene l’unico risultato di essere inefficaci, di parlare per stereotipi, di diventare invisibili.”
Simona sei sempre molto impegnata in eventi e divulgazione quali sono i tuoi progetti futuri?
“Un bell’impegno in autunno di cui non posso dire molto ed un libro nei primi mesi del 2025. È un saggio in cui tratto il tema della complessità e della comunicazione manipolativa. Il mio tentativo è quello di offrire un po’ di consapevolezza in più agli altri sul tema e di rivolgermi a tutti, non solo agli addetti ai lavori.”