Jonathan de Guzmàn non sa, perché in azzurro è arrivato da poco. A Genova il Ferraris è una bolgia. C’è Genoa-Napoli, e ai grifoni quell’1-1 sta stretto. Entra dalla panchina, de Guzmàn, e sceglie l’ultimo dei 5 minuti di recupero per fare la cosa più importante in un momento così di una partita così: gol. Vantaggio Napoli, fine del recupero, della partita e della storia. Bravo de Guzmàn. Grazie de Guzmàn.
Lui non sa, perché in azzurro è arrivato da poco. Ma ieri, il nuovo acquisto ha evitato un’altra crisi di nervi ad una tifoseria che, negli ultimi tempi, pare abbia paura di una delle cose più naturali, doverose e belle che ci si aspetti da un gruppo di supporter: restare accanto alla squadra, con serenità, sempre. Anche, forse soprattutto, nei momenti meno semplici.
Si dirà: la campagna acquisti (certo, se ne può parlare eccome). Si dirà: l’Europa League non sazia (bisognerebbe vincerla, prima). Si dirà: ma il presidente (senza dubbio). Molte cose si possono dire. Andrebbero dette tutte, a voler essere completi e lucidi. La possibilità di mettere in discussione un gruppo, o anche solo alcune individualità, è sacrosanta. Il tifoso che paga per la sua passione – leggi soldi, e neanche pochi – ha diritto di dirsi deluso, amareggiato, persino tradito. Ma il rischio di tirare troppo la corda, in un caso del genere, non è che si spezzi. Qui la corda non c’è: Aurelio de Laurentiis ha il suo buon tornaconto a restare a Napoli. E’ un altro, invece, forse anche più grave, che prescinde da presidenti, tecnici e giocatori: quello di non mettere in discussione sé stessi, intesi come tifoseria. Con conseguenze visibili.
Tutto orbita intorno ad una domanda, che è poi un equilibrio. Chi trascina chi, attualmente: i tifosi la squadra, con il proprio sostegno verso il risultato, o la squadra i tifosi, con le proprie vittorie verso il tifo? Insomma: si è accanto alla squadra con entusiasmo perché vince o si vince proprio perché si è accanto alla squadra? Ci pensi, ogni tifoso del Napoli.
In questo momento si percepisce un certo malumore, più o meno diffuso. D’accordo, la recente eliminazione scotta. Ma non è sbagliato, né irrimediabile, prendere atto di quanto una parte del tifo napoletano sia diventata più passiva. Dopo aver assaggiato le succulente portate di Champions degli ultimi anni, l’impressione è che si stia considerando la permanenza nella massima competizione europea un atto più o meno dovuto, non come qualcosa da conquistare sul campo e anche, soprattutto, sugli spalti, nelle piazze, nei bar, in ogni discussione da dodicesimo uomo. La squadra non si è qualificata perché ha meritato meno dell’Athletic. La sua tifoseria, invece? A volte troppo lunatici, a volte troppo emotivi. Due vittorie verso le stelle, due sconfitte e un pareggio verso stalle e manicomio. Un’altra parte della tifoseria vive con un certo nervosismo questa fase, perché ricorda bene quanto sanno essere determinanti, se vogliono, il San Paolo come stadio e Napoli come città.
In conferenza stampa Benitez ha detto di restare spalla a spalla, squadra e tifosi. Uniti. Noi vogliamo proporvi due spunti. Il primo video è una partita di qualche anno fa, Napoli-Foggia, una pazzesca rimonta avvenuta tutta nei minuti di recupero. Chi la ricorda, sa quanto in quell’occasione fu determinante l’apporto del San Paolo, che soffiò letteralmente il pallone in rete con il suo irresistibile trasporto. Fu una lezione di sostegno e vicinanza a due passi dal fischio finale.
Il secondo video non riguarda gli Azzurri, e neanche i suoi tifosi. Chiama in causa gli Hearts, squadra scozzese retrocessa dalla Premiership al termine della stagione 2013-2014, nonché i suoi tifosi. Succede una cosa a fine partita, con la squadra appena retrocessa: i giocatori applaudono i tifosi, i tifosi applaudono i giocatori. Succede davvero.
Si può guardare il calciomercato degli altri, ed è giusto sia così. Si può, però, dare uno sguardo anche ad altro. Ad altri. Napoli-Foggia è tifo puro, dinamite che andrebbe rispolverata. I tifosi degli Hearts sono un promemoria, invece: che far parte di quei colori, esserci ed essere, è davvero la cosa più bella, la fortuna sportiva di una vita intera. Oltre giocatori, allenatori e presidenti, una cosa che rende entusiasti, fieri di. E che le vittorie sul campo non sono quasi mai il presupposto di tuttò cio. Quasi sempre, sono il risultato.