Le migrazioni climatiche sono giuridicamente riconosciute. La crisi climatica è uno dei fattori di vulnerabilità che influenza le decisioni migratorie di milioni di persone del pianeta: movimenti dalle campagne ai centri urbani, spostamenti interni ai paesi, fino alle migrazioni internazionali. Un fattore destinato a contare sempre di più con l’inasprirsi dell’impatto degli eventi ambientali estremi improvvisi e progressivi.
Siccità, ondate di calore, inondazioni e tempeste stanno causando devastanti conseguenze sociali ed economiche, costringendo la metà della popolazione mondiale a fronteggiare difficoltà nell’accesso all’acqua, riduzioni della produttività agricola e il deterioramento e l’erosione dei mezzi di sussistenza. L’ultimo report di ActionAid analizza il fenomeno della migrazione climatica partendo da uno dei Paesi africani in cui la crisi climatica sta facendo sentire maggiormente i suoi effetti: il Gambia.
Migrazioni climatiche: il caso del Gambia
Che rapporto c’è tra crisi climatica e migrazioni? Da questa domanda parte la nuova ricerca di ActionAid “Il cambiamento climatico non conosce frontiere”, che analizza gli aspetti giuridici, normativi della mobilità umana legata ai disastri naturali, al degrado ambientale e al clima che cambia, grazie a una indagine in Gambia, uno dei paesi africani dove la migrazione interna e internazionale è più forte e la crisi climatica mostra i suoi segni attraverso siccità, desertificazione, salinizzazione ed erosione del suolo.
Secondo la ricerca condotta in Gambia, attraverso interviste con 128 persone tra migranti di ritorno e rimpatriati, migranti interni e residenti in aree rurali colpite dai cambiamenti climatici, la mobilità climatica è un fenomeno complesso e sfaccettato. Spostarsi sia verso i centri urbani che verso l’Europa è una scelta guidata da motivi economici, da aspirazioni e per sfuggire alla povertà; per migliorare le proprie vite
e sostenere sé stessi e la famiglia.
Si lavora molto duramente nelle fattorie durante la stagione delle piogge, ma poi non si ottiene abbastanza raccolto. Le piogge sono insufficienti o arrivano tardi e distruggono i raccolti. Abbiamo anche
raccolto soldi in famiglia e abbiamo comprato un cavallo, ma è morto dopo una stagione delle piogge. Non possiamo permetterci di affittare un trattore o comprare fertilizzanti e piantine. Quindi, abbiamo smesso del tutto di coltivare. [Uomo 28 anni. Jamaara, Gambia].
Migrare o restare?
Se i fattori ambientali sono identificati come minacce o “moltiplicatori di vulnerabilità”, capaci di esacerbare condizioni di iniquità preesistenti, come si decide di migrare o restare? Nella ricerca ActionAid mostra come le disuguaglianze e le dinamiche di potere esistenti svolgono un ruolo determinante nel risultato del percorso migratorio, influenzandone la destinazione, la durata e le condizioni.
“La governance internazionale delle migrazioni attuale è il risultato di profonde disuguaglianze economiche e sociali. In questo contesto, gli interessi degli stati prevalgono sui diritti umani, con un’agenda incentrata sul paradigma della deterrenza e sull’esternalizzazione delle frontiere. La risposta alle migrazioni climatiche risente di questo approccio, focalizzandosi esclusivamente sulla dimensione esterna che promuovere l’adattamento in situ, trascurando l’ampliamento della protezione legale interna come efficace intervento
a sostengo della migrazione come forma adattamento ai cambiamenti climatici” spiega Roberto Sensi, Policy Advisor Global Inequality ActionAid Italia.
Le politiche verso i migranti climatici di Europa…
Come evidenzia la ricerca di ActionAid, oggi non esiste una protezione umanitaria stabilita dal quadro giuridico europeo per i migranti climatici. L’Unione Europea sotto la presidenza di Ursula Von Der Leyen ha creato frammentazione e separazione delle politiche di risposta distinguendo nettamente le iniziative del Green Deal Europeo dalla governance della migrazione e dell’asilo attraverso il Nuovo Patto sulla Migrazione e sull’Asilo, inspirato dal paradigma della deterrenza.
Il Patto menziona il cambiamento climatico tra le maggiori sfide globali che caratterizzano il presente e il futuro dei flussi migratori, senza tuttavia adottare impegni concreti in tal senso. La sua definitiva messa in atto consoliderà però di fatto le tendenze escludenti e selettive sperimentate su scala europea e nazionale negli ultimi dieci anni. Attraverso l’adozione uniforme sul territorio degli Stati membri dell’approccio hotspot e dell’esternalizzazione delle frontiere il rischio concreto è quello di un sostanziale svuotamento del diritto d’asilo. Attualmente la protezione per coloro che sono costretti a fuggire a causa di fattori climatici ed ambientali è affidata alla competenza nazionale.
… e Italia
In Italia, nonostante le modifiche alle norme sul diritto d’asilo apportate dal 2018 in poi con il susseguirsi di Governi di colori e composizioni diversi, la protezione temporanea – che fornisce protezione collettiva e temporanea “per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all’Unione Europea”- viene affiancata proprio nel 2018 da uno strumento specifico e individuale, il Permesso di soggiorno per calamità, che da protezione a chi fugge per cause climatico-ambientali di migrazione.
Il Governo Meloni elimina la possibilità di convertire in permesso di soggiorno per motivi di lavoro quello ottenuto per calamità e limita le possibilità di rinnovo, garantendo un livello minimo di protezione e non lascia spazio per una maggiore permanenza del beneficiario sul territorio nazionale. Nelle raccomandazioni del report ActionAid chiede al Governo italiano di rafforzare e ampliare questo strumento per dare protezione ampia a chi arriva in Italia per motivazioni legate a disastri e crisi climatica.
Riconoscere le migrazioni climatiche
I cambiamenti climatici non sono sempre direttamente riconosciuti come centrali nelle decisioni consapevoli di chi vuole migrare, ma hanno un forte impatto sulle condizioni di vita delle persone nelle aeree rurali, dove è chiaro che già oggi stanno rendendo la sopravvivenza e l’agricoltura sempre più a rischio, anche e soprattutto per chi decide di non partire perché non può o non vuole.
In Paesi come il Gambia, dove il 65% della popolazione vive nelle aree urbane e dove la povertà generalizzata, la disoccupazione, il declino del turismo e dell’agricoltura sono determinanti per la spinta alla migrazione, è necessario rafforzare le strategie di adattamento climatico e ambientale, sostenendo coloro che decidono di rimanere nel luogo di origine, ma, allo stesso tempo, proteggere e supportare chi decide o è costretto a spostarsi verso i centri urbani o al di fuori del Paese, massimizzando così il potenziale della migrazione come strategia di adattamento.
In copertina foto di Brent Olson da Pixabay