Michele Monetta è un maestro, un pedagogo come ama definirsi, che da anni opera a Napoli e nel mondo. Una pietra preziosa patrimonio del nostro teatro e della nostra città, conosciuto, amato e stimato dagli addetti ai lavori e dai suoi innumerevoli allievi che ha seguito, e segue, con passione e rigore nella loro preparazione di futuri attori. Una delle figure che amiamo presentare e far conoscere, ad un pubblico più vasto, per la competenza, la professionalità , la passione e la dedizione che profondono nel loro lavoro.
Monetta dirige da 16 anni, insieme a Lina Salvatore, compagna di vita e di lavoro da 27 anni, l’Icra Project unica scuola di Mimo Corporeo in Italia e con sede a Napoli, attiva anche a Roma con l’Atelier di “Commedia dell’Arte Contemporanea” . E’ docente, inoltre, presso l’Accademia d’Arte drammatica di Roma “Silvio d’Amico” e presso il Campus teatrale di Spoleto, nonché unico docente-regista italiano chiamato al RUDRA Béjart di Losanna insieme a maestri provenienti da tutto il mondo. Collabora a progetti nazionali ed internazionali ed è stato, di recente, chiamato dal Sindaco De Magistris nel CdA dello storico teatro Trianon che a breve riaprirà i battenti.
La passione di Monetta per questo lavoro viene da lontano, da quando bambino rimase affascinato da Jean Louis Barrault nel film “Les enfants du Paradis” e decise che era quello, e solo quello, che desiderava fare nella vita. Insomma un predestinato, animato dal classico “fuoco sacro”, quel qualcosa che dà la direzione e motiva a superare ostacoli e sconfitte e che a pochi fortunati è concesso avere in dono. Ed è una vita che Monetta persegue e prova a far perseguire la “materia dei sogni”, la sostanza di cui sono fatti i sogni, vero oggetto e cuore del suo insegnamento in continua evoluzione.
Il suo amore per questo lavoro è nato nella sua infanzia guardando il grande mimo J. L. Barrault, come si dà corpo ad un sogno intravisto?
“Inizialmente in maniera non organica, scegliendo strade apparentemente diverse, poi sempre più consapevolmente e direttamente. In prima istanza scelsi la facoltà di architettura dove incontrai il maestro Riccardo Dalisi e la sua idea di teatro che chiamava “Architettura d’animazione”. Lo studio particolare dell’uomo che interagisce nello spazio con gli altri, unitamente all’immagine degli attori straordinari del film, con la bellezza dei loro gesti, fu il là che mi fece scattare in testa l’idea del teatro come cammino da perseguire.
Erano gli anni ’70 e mi unii ad una compagnia di attori non professionisti di Salerno. Da questa esperienza nacque l’incontro con alcuni attori professionisti di Napoli che mi ingaggiarono ed iniziai a lavorare. Ben presto compresi che qualcosa non andava, lavoravo per intuizione, senza rigore né tecnica, tutto istinto. Mi informai e me ne andai in Francia dove studiai con Etienne Decroux, il mio maestro ed ebbi come insegnante di pedagogia teatrale Monica Pagneux.”
Si appropriò di quella “cosa”, di quella tecnica che aveva intuito. Al rientro a Napoli come continuò la sua formazione?
“Fondai la Cooperativa teatrale per ragazzi “Le Nuvole” che lasciai dopo 12 anni, non avevamo più la stessa idea di teatro. Io ritengo che i ragazzi debbano vedere il teatro degli adulti, andarci con i familiari e non con 300 bambini rischiando una fruizione settoriale. Meglio abituare i bambini alla qualità. Musica, teatro, cinema, pittura d’autore e che nessuno si frapponga tra il bambino e l’opera. Forse non comprenderà ma intanto l’opera starà agendo e su un piano profondo, non razionale, quello dell’anima. La sua “anima” si forma dai 2 ai 7 anni e deve nutrirsi di cose straordinarie, i bambini, si sa, apprendono come spugne. Di recente, al Museo Nazionale, ho allestito un percorso Pompeiano con attori e musici, accettando un massimo di 25 ragazzi per instaurare con loro un rapporto diverso, da persona a persona e non con un numero. Un esperimento che sta dando i suoi frutti.
Per quanto mi riguarda, in quegli stessi anni, ebbi modo di fare esperienza nel mondo della Lirica lavorando presso vari enti come attore o regista, a Rovigo curai la regia e le scene di un’opera lirica contemporanea. Poi iniziai a collaborare col maestro De Simone, grande conoscitore della musica del sud dal 400 ad oggi, uomo geniale, rigoroso e severo che, con Eduardo, reputo il massimo esponente del teatro napoletano. Ho avuto la fortuna di collaborare col maestro per sette anni come coreografo e mimografo e talvolta come attore e mimo al Mercadante, al Teatro di Corte ed in giro per l’Italia. Lavorare con lui mi ha aiutato a capire la scena e l’equilibrio dei suoi elementi e a comprendere che il mio è lo sguardo esterno del pedagogo.”
Oggi cosa insegna ai suoi allievi e come si articolano i suoi corsi. E, soprattutto, qual è la sua idea di attore.
“Incontro studenti universitari e di accademie o giovanissimi allievi attori, spesso clown e animatori. In generale cerco di essere una guida, cerco di far aprire loro gli occhi ed acquisire consapevolezza del loro ruolo di artisti. Li invito ad avere degli ideali, a studiare i classici, a lavorare su se stessi come artigiani prima che come artisti…
Indico loro la strada ma la strada la devono percorrere con le proprie gambe…
Li invito a conoscere la “materia dei sogni” – tanto per citare Prospero ne La Tempesta – e cioè questo insieme di fantasia, immaginazione, ossa, tendini, organi e muscoli.
Nella mia scuola lo studio si svolge lungo un biennio che prevede un diploma finale, le materie sono quattro: Mimo corporeo; Scherma di base; Maschere, da quella neutra del ‘900 a quelle della Commedia dell’arte che restituisce al personaggio la radice di base: l’animale di riferimento; Voce col Metodo Feldenkrais a cura di Lina Salvatore.
La voce, la parola, la dizione sono “corpo” non elementi separati da esso. Il lavoro mio e di Lina è complementare e sperimentale, l’attore allievo deve arrivare ad avere una percezione del corpo extra-ordinaria.
Spazio, ritmo, risposta: ciò che ritengo sia la base per l’attore biomeccanico. L’attore è un animale da palcoscenico, un magnifico animale per Mejerchol’d, e deve lavorare sui “sei” sensi, deve essere una sorta di atleta del corpo. Le idee vanno attraversate dai muscoli ed alla fine dello spettacolo l’attore deve essere stanco mentre il pubblico deve uscire dal teatro carico.”
La biomeccanica di Mejerchol’d è “scienza del corpo” in funzione della recitazione e non un “sistema” alla maniera di Stanislavskij o di Brecht. Cosa rimane oggi dei vari metodi?
“Sono teorizzazioni che hanno fatto il loro tempo, passaggi storicamente necessari ma superati. In fondo la Sceneggiata degli anni ’20-’30, così come il Varietà, erano già straniamento Brechtiano, l’attore, Petrolini o i fratelli Maggio, raccontava, non incarnava, il personaggio, criticandolo se lo meritava.
Il mio metodo, oggi, è il “sincretismo” delle mie esperienze tutte. Penso che non esista il metodo ma le persone e su quelle lavoro per individuare punti deboli e di forza e cercare di trarne il meglio adottando la strategia più ampia possibile.
Mi piace riferirmi alla pedagogia teatrale di J. Copeau e al suo studio del gioco, in fondo è questo recitare: un gioco, to play, jouer. E noi italiani abbiamo inventato il gioco teatrale con la maschera, indossandola è palese che io stia giocando il ruolo del Capitano o di Arlecchino… poi bisogna essere in grado di toglierla, la maschera”.
Mastroianni, Manfredi, Giannini grandi attori italiani capaci di “giocare” rinnovando la nostra scuola.
“Io porto la mia esperienza in tutti i miei corsi, presso ogni scuola o teatro in cui vengo chiamato. Béjart mi chiamò al Rudra di Losanna nel 2001 e da allora ogni anno mi vengono affidati 40 danzatori provenienti da ogni dove. Con loro lavoro soprattutto sull’immaginazione.
Con l’aiuto del Prof. di storia del teatro Giuseppe Rocca, sceneggiatore e drammaturgo, sto raccogliendo in un libro la mia esperienza di pedagogo. Lo presenteremo in autunno a Napoli”.