(Adnkronos) – Nel corso della sua latitanza trentennale il boss mafioso Matteo Messina Denaro “ha potuto contare, nel tempo, su una rete di protezione”. E “quelli che lo proteggevano 30 anni fa non sono quelli che lo hanno protetto fino al giorno della sua cattura, o quasi”. A parlare è il Procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia, che coordina l’inchiesta sui favoreggiatori del boss mafioso arrestato il 16 gennaio 2023 e morto nel settembre scorso per un tumore. Dal giorno della cattura, gli inquirenti sono alla ricerca di chi ha permesso all’ex primula rossa di potere essere latitante per trenta anni.
“E’ chiaro che ci sono pezzi dello Stato che lo hanno aiutato, come fu per Bernardo Provenzano…”, spiega ancora il Procuratore de Lucia. Questa rete di fiancheggiatori “c’è stata e c’è, anche quelli che abbiamo già individuato e i cui nomi sono pubblici, anche se la nota legge mi impedisce di parlarne, sono professionisti – spiega il magistrato – Chi ha dato l’identità per consentirgli di potere girare e fare affari è gente che è stata arrestata anche al Nord Italia, con un’altra vita e chi gli ha dato i documenti è oggetto di investigazione”.
E ancora: “Lo sforzo investigativo è di ricostruire quello che è successo, a cercare le talpe di un tempo e più recenti, quelli che gli hanno dato protezione anche per un solo giorno e che sono in possesso del suo patrimonio e che vogliono prendere il suo posto”. Ad aiutarlo, dunque, non solo la famiglia di sangue ma la famiglia ‘di mafia’, tra cui anche degli insospettabili professionisti. E’ proprio di eri la richiesta della Dda di Palermo a 15 anni di carcere per Laura Bonafede, la maestra di Campobello di Mazara, sentimentalmente legata a Matteo Messina Denaro.
Alla donna, figlia dello storico boss del paese, Leonardo, arrestata ad aprile del 2023, inizialmente era stato contestato il reato di favoreggiamento aggravato, modificato nel corso delle indagini in quello di associazione mafiosa. La maestra è cugina di Andrea Bonafede, il geometra che ha prestato l’identità al boss durante l’ultima fase della latitanza e di altri due favoreggiatori del padrino, Emanuele e Andrea (omonimo del geometra).
Secondo la Procura di Palermo, l’imputata sarebbe stata un pezzo fondamentale del meccanismo che per 30 anni ha protetto la latitanza di Messina Denaro. I due, insieme alla figlia della donna, Martina Gentile, ai domiciliari per favoreggiamento e procurata inosservanza della pena, avrebbero vissuto insieme e si sarebbero comunque sempre frequentati.
“Eravamo una famiglia”, scriveva il capomafia in un pizzino diretto a Blu, uno dei nomi in codice usati per la maestra. Lei si occupava del sostentamento e della sicurezza del boss, gli faceva la spesa durante la pandemia nel timore che si ammalasse e non potesse uscire di casa, condivideva con lui linguaggi cifrati, segretissimi pizzini, affari e informazioni sulla cosca. Sempre ieri è arrivata la condanna a 14 anni di reclusione proprio per Andrea Bonafede, il geometra di Campobello di Mazara che prestò l’identità a Matteo Messina Denaro. Con questa sentenza, salgono a cinque le condanne ai personaggi vicini all’ex superlatitante.
Nei giorni scorsi si era tenuta, al Tribunale di Marsala (Trapani) la nuova udienza del processo a carico di un altro presunto fiancheggiatore del boss, il medico Alfonso Tumbarello. Accusato di avere prescritto al boss oltre 130 ricette. “Ero convinto di curare un paziente di nome Andrea Bonafede affetto da un tumore al colon e non Messina Denaro”; ha detto il medico in aula.
“Ero ingannato da un mio assistito che aveva tradito il rapporto fiduciario tra medico e paziente. Non avrei mai immaginato che ci fosse una cessione di identità. Qualche volta è venuto nel mio studio”. Per la Procura, invece, Tumbarello sapeva benissimo che il vero malato era Messina Denaro. Anche se lui smentisce: “Io sarei andato direttamente dalle forze dell’ordine, se solo lo avessi saputo…”. La ricerca dei fiancheggiatori continua. (di Elvira Terranova)
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