Uno degli atleti che ci hanno fatto sognare alle scorse olimpiadi di Tokyo è Marcell Jacobs, l’uomo più veloce del mondo. L’atleta vincitore dei 100 metri piani e della staffetta 4×100. Nelle numerose interviste rilasciate dopo i suoi successi, Jacobs ha più volte raccontato il suo percorso atletico. Un percorso fatto di duri allenamenti, alimentazione calibrata ma anche di consapevolezze conquistate. Insomma un percorso sportivo e personale al tempo stesso portato a compimento grazie all’aiuto di mental coach. Una qualifica che sentiamo spesso in queste occasioni, a volte anche troppo, ma sappiamo cos’è un mental coach e soprattutto cosa fa?
The inner game
La pratica del coaching nasce proprio in ambito sportivo negli anni Settanta grazie all’allenatore di tennis Timothy Gallwey e il pilota automobilistico John Whitmore. Nel suo saggio più famoso, The Inner Game of Tennis, Gallwey spiega che ogni atleta, quando gioca le sue partite, affronta due avversari, quello al di là della rete (del campo da tennis) e quello interiore. L’avversario interiore altro non è quella vocina dentro di noi che giudica, consiglia, ha paura del fallimento e che, se troppo pressante, può pregiudicare la performance sportiva. Il metodo di Gallwey e Whitmore ebbe enorme successo nel tennis tanto che fu poi traslato in altri sport come il golf e lo sci ma anche in ambiti esterni allo sport come quello aziendale e la gestione dello stress. Non a caso lavorare per obiettivi, elaborare strategie per arrivare al risultato sono prassi, che derivano dal coaching, oggi molto diffuse nelle aziende, soprattutto le più grandi e le più performanti.
Cosa fa un mental coach
Chi è, dunque, il mental coach? E’ quella figura che come una carrozza porta il suo coache (il suo allievo) dallo stato in cui si trova a quello a cui vuole arrivare. Che cammina insieme a lui alla ricerca degli ostacoli e delle zavorre interiori che si frappongono tra lui e il suo obiettivo. Può capitare che alcune di queste zavorre che condizionano fortemente il presente abbiano radici lontane nel tempo e allora il viaggio dentro se stessi si fa più profondo, emotivamente più forte. Per questo motivo è una professione molto delicata. Come si diventa coach? Prima di tutto frequentando una scuola di coaching. In Italia ne esistono diverse che seguono metodi differenti. Alcune di queste, per esempio, si avvalgono anche degli strumenti propri della Programmazione Neurolinguistica. Eppure alle competenze tecniche, imprescindibili, devono essere abbinate anche soft skill come l’elasticità mentale, la capacità di entrare in empatia e di motivare. Si fa un gran parlare di mental coach come se fossero parte di una moda mentre parliamo di una professione certificata e regolata.
Le scarpe nella testa
Con grande coraggio, dopo i suoi trionfi a Tokyo Marcell ha parlato di quelle zavorre interiori (come le abbiamo definite qualche rigo più su) e di quanta sofferenza abbia portato l’affrontare questioni irrisolte del suo passato. Un lavoro duro che alla fine si è rivelato liberatorio. Diversi sportivi e commentatori hanno sollevato delle perplessità sulle performance atletiche di Marcell Jacobs. C’è chi ha pensato avesse fatto ricorso a sostanze stupefacenti, chi invece che indossasse scarpe “truccate” quando, in realtà, il vero “trucco” era nella sua testa.