Mi trovò così, seduta sul pavimento e persa in mille e mille pensieri.
«Mamma getta via tutto, sono cose vecchie ed inutili!» Mi aveva ripetuto da giorni mio figlio. «Ricordi? Serve lo scaffale dello stanzino per riporvi le scorte ed i rifornimenti che sono nell’armadio fuori al terrazzo. Di questo passo, non ci libereremo mai di quel mobile per fare spazio al dondolo…».
Rimandando, mio malgrado, l’operazione ormai da lungo tempo e, finalmente decisa ad accontentare le insistenti richieste, la mia mente aveva divagato, assorbita, pervasa, travolta da infiniti ricordi, remore e tentennamenti.
Su un ripiano, dalla scatola dei vecchi cellulari, spuntava in pole position quello che mamma mi aveva regalato in occasione del viaggio di nozze, soprannominato scherzosamente da un’amica “cabina telefonica portatile”.
Il dono aveva consentito alla mia mamma di trascorrere un po’ più tranquilla i giorni del mio soggiorno all’estero, fiduciosa di potermi contattare in qualsiasi momento lo desiderasse.
Accanto, uno scatolino con un minuscolo Napoleone Bonaparte, una statuina in porcellana, discretamente rifinita, che in passato aveva fatto la sua figura sulla scrivania di mio padre. Non era un oggetto di valore ma, per il mio genitore, comunque un caro ricordo di suo padre, mio nonno.
Poco più in là, un cofanetto di velluto rosso a costine con telaio in argento raccoglieva un certo quantitativo di bomboniere, reperti storici eredità di comunioni, cresime, matrimoni o altre occasioni. Ovviamente, costituivano la memoria viva di cerimonie e feste trascorse con parenti, amici o conoscenti. Di cristallo, acciaio, ceramica o di argento, cianfrusaglie in vero, erano anch’esse degne custodi di reminiscenze ed affetti.
Dallo scaffale, in alto, sporgeva uno scatolo dai fiori sbiaditi con sopra una scritta: foto. La dicitura, in realtà, ragguagliava poco sul contenuto e, sicuramente, non lasciava prevedere l’immensa ricchezza che conteneva.
Al suo interno, accuratamente raggruppate e rilegate con spaghi, vi erano fotografie dell’epoca passata. Nonni, bisnonni, trisavoli, zii, cugini e parenti d’oltralpe rivelavano, con i loro abiti, le acconciature, le case e le suppellettili d’epoca un mondo antico, certamente più semplice e meno pretenzioso dell’attuale. Per le strade, vuote ed attraversate solo da qualche nobile carrozza, da autovetture di bassa cilindrata o da qualche più povero mezzo di locomozione o carretto trainato da bestie stanche e malandate, la vita appariva calma e assai diversa da quella caotica e logorante delle odierne vie cittadine, investite da traffico e spesso assordanti rumori. Non mi sarebbe dispiaciuto appartenere a quei tempi lontani.
A destra, sul terzo ripiano dello scaffale erano visibili alcune copie, le ultime dieci, del mio primo romanzo.
La mia aspirazione a diventare una scrittrice di successo era rimasta sospesa, come una frase conclusa con puntini sospensivi.
La voglia era stata forte, anche la dedizione, ma era mancata l’occasione e , forse, anche una manciata di buona fortuna, che in questi casi è di grande aiuto. In fondo, però, la speranza è l’ultima a morire, ci si ripete per consolazione.
Un contenitore di metallo, un po’ arrugginito, conteneva un bel groviglio di chiavi; grandi e piccole, di ferro e di ottone, antiche e moderne. Di varia grandezza, dalla più piccola di appena un paio di centimetri, forse destinata ad aprire un lucchetto, alla più grande probabile strumento per sbloccare un vecchio cancello e, poi, quelle di normale amministrazione, che un tempo aprivano porte di casa e portoni, ben diverse dalle tipologie che oggi sono predisposte non tanto per far accedere i proprietari quanto, soprattutto, per scongiurare l’accesso ad estranei indesiderati.
Su un altro ripiano, più in basso, uno scatolone era pieno di oggetti ed oggettini vari. Soprammobili?
Piccole sfere, parallelepipedi, cubi, piramidi, eccetera; minuscoli solidi di onice e di alabastro, graziose cianfrusaglie lisce al tatto, parti di un gioco da tavolo che eravamo soliti fare in famiglia, la mia di origine; quando, tanti anni fa, ci riunivamo piacevolmente dedicando del tempo, molto prezioso, ad incontri di svago e di reciprocità.
Molto in alto, sull’ultimo ripiano ritrovai i fatidici trenini di mio padre: locomotive d’epoca, locomotori, carrozze passeggeri, vagoni cisterna benzina, carri bestiame e così via, rigorosamente alloggiati nei loro scatolini. E poi, ancora, binari dritti e a curva, curve a gomito, scambi, ponti, gallerie, stazioni: quanti ricordi!
Percorsi tortuosi e, ogni volta diversi, venivano predisposti da mio padre e mio fratello su un tavolo o sul pavimento, quando insieme si divertivano ad inventare nuovi scenari per far sfrecciare veloce il mezzo di locomozione approntato; verosimile scusa per trascorrere gioiosi momenti, ritagliati tra gli impegni, e sorridere e ridere anche come bambini.
Per terra, più in là, avevo intravisto una cassetta di legno. Sempre più curiosa, vi avevo guardato dentro.
Dai! La cassa conteneva seghe, seghetti, trapani, squadrette, saldatori, piccoli torni, scatoline di stagno e grandi quantità di pinze, giraviti, viti, chiodi e bulloni. Con essi il mio papà si era spesso improvvisato elettricista, falegname, fabbro, miniaturista, ecc. per hobby o per necessità, qualora qualche piccolo disagio domestico o richiesta di noi figli l’avessero richiesto.
Testimonianze, legami con un passato antico o recente. Quanti oggetti, quante cose! Inutili certo, ma utili per ricordare…. Pregnanti di memorie, pulsanti di vita.
Come liberarmene? Perché liberarmene? In fondo, chi può dire cosa è inutile e cosa è utile per un’altra persona?
Risvegliata quasi dal torpore nel quale ero scivolata, e richiamata alla realtà dalle parole di mio figlio, mi sentii dapprima smarrita, poi confusa, imbarazzata e, infine, non giustamente costernata.
«Mamma, non hai gettato via ancora niente!». Mi apostrofò, cercando probabilmente di incutere in me moti di pentimento o addirittura di vergogna.
Neanche il tempo di rispondere alle invettive, e si udì la voce di mio marito che ci chiamava a rapporto. «Venite, sono arrivate le pizze!”». E poi ancora «Presto, o si raffreddano!».
Approfittando dell’impellenza che l’occasione richiedeva, mi alzai dal pavimento, un po’ anchilosata perché alloggiata lì da qualche ora; guardai mio figlio, aveva il viso corrucciato e deluso.
A disagio, ma non troppo, mormorai, proferii, sciorinai una piccola bugia: «Mi dispiace, ti prometto che lo farò domani».
Foto concessa da Laurentia Mannelli per Cinque Colonne Magazine