“Questa è una mappa piccola: è …una mappina”, disse il prof all’alunno che aveva preparato una “mappa concettuale”, cioè uno schema in cui si collegano fra loro concetti appartenenti a diversi ambiti.
Lo scherzoso falso diminutivo ci dà lo spunto per riflettere su una famiglia di parole che nelle sue varianti passa dal massimo ordine della mappa topografica o della mappa concettuale al massimo disordine della mappina, straccio per la pulizia che ha il suo status abituale appunto nel disordine, in quanto ammappuciata, cioè sgualcita spiegazzata accartocciata …
Si tratta di una famiglia di parole che ha resistito al tempo, nell’italiano e nei dialetti (in siciliano la mappina è il canovaccio, lo strofinaccio da cucina), sia nel senso “pulito” che in quello “sporco”.
Ne parliamo qui col modesto ma onesto scopo di contribuire, pur se in minima misura, a rinverdire una parola come mappina che è nel nostro DNA più di quanto pensiamo (la parola, s’intende: absit iniuria verbis!), presente anche come improperio nel gergo dei teenagers, i quali tuttavia ne ignorano il vero significato.
E ne parliamo pur nella consapevolezza di entrare nell’affollatissimo novero di coloro che ne hanno sviscerato l’etimologia, i significati, le parentele (come il poco sopra evocato ammappucià). Dei contributi altrui anzi facciamo tesoro, permettendoci solo di tener presente più d’ogni altro quello dei maestri che abbiamo avuto modo di seguire attraverso le opere o direttamente.
E veniamo al dunque, cioè alla mappina.
La storia è nota. I Romani, quando andavano a pranzo da qualcuno, dovevano portare con sé una mappa, cioè un tovagliolo, che si aggiungeva al panno fornito dal padrone di casa per asciugarsi le mani (il mantele o mantile o mantelium, proveniente però da diversa etimologia).
C’erano poi gli invitati di professione, i cosiddetti “parassiti”, che portavano una mappa abbastanza grande, perché la usavano alla fine del pranzo per portarsi via gli avanzi. Insomma si facevano quella che noi chiamiamo la mappatella, diminutivo di mappata, involto di cibarie (ma per estensione anche d’altro: storica ad esempio la mappata dei panni della lavandaia), termine usato spesso anche per metafora: na mappata ’e guaie, na mappata ’e fetiente etc.
Molti ricordano di aver scherzosamente chiamato, in anni passati, la spiaggia libera di Mergellina “Lido Mappatella”, proprio in riferimento al fatto che si portava con sé un involto con la colazione, l’asciugamano e magari il ricambio del costume, e mentre si faceva il bagno la mappatella era depositata sulla spiaggia, non essendoci cabine né servizi.
Come improperio il termine è stato usato, ahinoi, prima per le donne, e poi al maschile, ma in questo caso più nel senso di persona dal comportamento spregevole, uomo furbescamente malevolo e perfido, mentre la donna così definita, prima di essere donna volgare e trasandata, è stata donna dissoluta, ridotta dalla eccessiva attività sessuale a uno straccio, detta altrimenti scòrteca (impressionate la somiglianza con scortillum, usata nel I secolo a.C. dal poeta Catullo col medesimo significato).
E l’inesauribile espressività dei napoletani non si limitava in passato a definire un uomo o una donna semplicemente (si fa per dire) mappina, ma aggiungeva specificazioni che servissero a rendere più laida l’immagine, attingendo tali specificazioni dalla vita reale.
Ci spieghiamo meglio: una persona può essere un mappino o una mappina, ma, se non ci basta, per noi sarà – a piacere e a seconda dell’estro del momento –:
• na mappina p’ ’o cesso
• na mappina ’e casadduoglio: quest’ultimo era il salumiere, quello quindi che vendeva tra l’altro caso (cacio, formaggio) e uoglio (olio), il quale adoperava uno straccio, spesso dalle dubbie qualità igieniche, per liberare il banco dai residui di salumi e formaggi e dalle briciole di pane
• na mappina ’e cisto: ’o ccisto era il petrolio, che alimentava una volta i lumi, e di esso era impregnato lo straccetto che si usava per pulirli; una mappina ’e cisto veniva poi anche adoperata per trasmettere la fiamma da un lume ad un altro. L’espressione era nota una volta ad alcuni anche nella variante, aggiornata all’uopo per l’epoca, mappina ’e lumme a ggasse
• nu figlio / na figlia ’e mappina, secondo una diffusa modalità d’ingiuria, con cui si attribuisce una qualità negativa non solo alla persona ma anche alla sua schiatta (com’è noto, a Napoli – ma anche altrove – si può essere chiamati figli di parecchie cose…)
Dal bel volume di Sergio Zazzera Proverbi e modi di dire napoletani, poi, apprendiamo – e volentieri utilizzeremo all’occorrenza – mappina posta mpèrteca (che saremmo tuttavia propensi a semplificare in mappina mpèrteca), uno straccio puzzolente su una pertica, cioè dove si pone la bandiera, ovverosia persona “laida che, tuttavia, ami mettersi in mostra”.
Apprendiamo ancora, stavolta da un informatissimo sito web (vesuvioweb.com), che c’è chi usa anche il moltiplicativo lavamappine, che potenzia l’insulto in quanto, se la mappina è laida, “cosa sarà mai colei che è addetta al compito di lavare questi sudici stracci?”
Non abbiamo certo esaurito il tema. Resterebbe ad esempio da indagare sul nesso tra la mappa-tovagliolo e la mappa-carta topografica, su cui, pur non avendo prove, accogliamo l’ipotesi di Renato de Falco per cui il disegno delle macchie sulle mappae-tovaglioli può aver ispirato il nome mappae dato alle antiche carte geografiche “in cui mari e continenti venivano grossolanamente schizzati, quasi a mo’ di macchie”.
Consci che non è possibile dire qui tutto, vi rimandiamo almeno all’esauriente pagina dell’Alfabeto napoletano dello stesso de Falco e vi salutiamo con una battuta attribuita all’attore Agostino Salvietti (1882-1967) che, dopo essere stato in un tram affollatissimo, giocando sul proprio cognome sembra esclamasse: So’ sagliuto salviett’ e so’ sciso mappina.