Non è vero che non ci ho pensato; ci ho pensato tante volte: ogni volta che non mi ha ascoltata (ma pensavo: è stanco), ogni volta che l’ho visto ubriaco (ma ho pensato ai suoi problemi sul lavoro), ogni volta che ha voluto fare all’amore e io non volevo (l’amore, poi… che c’entrava con quello?
Ma lui sempre mi diceva: ti amo), ogni volta che mi ha alzato la voce o mi ha dato uno schiaffo (ma lo vedevo insicuro, infelice e mi faceva pena), ogni volta che ho dovuto nascondermi dietro un paio di occhiali scuri anche se non c’era il sole e abbassavo lo sguardo se incontravo la vicina per le scale (e provavo tanta vergogna), ogni volta che ho dovuto dire di no a un’amica, a un caffè, a una passeggiata insieme (perché anche di quello era geloso, e vuol dire che mi ama), ogni volta che ho guardato una donna stringere al petto il suo bambino (ma io no. L’unica volta che ero rimasta incinta l’avevo perso “cadendo dalle scale”.
Ma lui ha pianto, mi ha chiesto perdono, mi ha consolata. E poi ho sempre preso la pillola, di nascosto -per paura- ma di bambino bastava lui in casa, era lui che aveva bisogno di tutte le mie cure. O forse no, non lo volevo un figlio che mi vedesse così), ogni volta che mi guardo allo specchio e cerco di ricordare quella ragazza dal sorriso facile, la ragazza che sono stata. Ma, già, il tempo… È che ne è passato tanto di tempo e le cose ormai sono così. Cosa credi possa cambiare a quarant’anni, come potrei cambiare, io? Come potrei dire: basta! E poi? E che ne sarà di me? Questa è la vita che conosco, nel bene (?) e nel male. Un’altra vita non riesco nemmeno a immaginarmela. Devo solo resistere. Prendere qualche goccia in più. Tanto, peggio di così non potrà andare.
Era almeno due sere che non li sentiva urlare (veramente era lui che urlava; di lei, ogni tanto, solo un lamento). Finalmente un po’ di pace, era un condominio tranquillo, di gente per bene, quello, lavoratori, gente che si faceva i fatti suoi. Da quell’appartamento, ogni tanto, forse un po’ troppo spesso, venivano fuori urla, rumore di oggetti rotti, ma erano affari loro e i panni sporchi ognuno se li lava in casa. Lui, poi, era una brava persona, gran lavoratore; anche quella mattina l’aveva visto uscire con la borsa degli attrezzi.
E, così, lei poteva starsene a casa, a fare la signora, che nemmeno avevano figli. Non le era simpatica, la vicina, alla signora Rosa. Mai una parola, un sorriso. Un saluto a denti stretti, e via. Che poi, che cosa aveva da darsi delle arie? Che quando erano arrivati nel palazzo ancora ancora era giovane, carina; ma poi si era spenta subito, chissà perché. No, il perché non se l’era mai chiesto per davvero, dico. Lui, il marito, invece, era un tipo simpatico, un bel sorriso, un saluto, una battuta.
L’indomani, la signora Rosa si stupì quando le suonarono alla porta a quell’ora inconsueta, saranno state le sei del mattino. Sulla porta c’era un uomo in divisa: un poliziotto, si presentò. Doveva solo farle qualche domanda sui suoi vicini. In centrale avevano ricevuto una telefonata anonima, avevano provato a telefonare ma nell’appartamento non rispondeva nessuno e il signor Baldi da giorni non si presentava al lavoro. La signora Rosa vide che armeggiavano intorno alla serratura della porta accanto. E poi un trambusto infinito e per ore un viavai di gente in divisa, in borghese, in camice. Solo qualche ora più tardi, una barella con un sacco grigio chiuso ermeticamente.
Il marito lo trovarono qualche giorno dopo, in un albergo in riviera. Per un po’ provò a negare, ma poi disse che l’aveva sempre amata.
“Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla”
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Foto generata con Copilot per Cinque Colonne Magazine