Il teatro si costituisce sull’operato del corpo dell’attore. Il gesto non esiste in quanto fine a se stesso, ma si sovrappone al progetto drammaturgico, che gravita virtualmente attorno alla stessa sostanza fisica del materiale scenico; è così che prende forma, per precisa volontà del dramaturg, l’evento della messa in scena.
A partire dalla visione critica di Gustave Flaubert, che già nel 1856 (in questo romanzo che fu al centro di un noto processo per oltraggio alla morale) intuiva i limiti dei modelli sociali racchiusi nel mito borghese, l’allestimento diMadame Bovary, come concepito dal regista Luciano Colavero, è anche riflessione prossemica sul corpo dell’attore, ovvero la relazione e interazione tra il soggetto e la dimensione spaziale in cui esso è immerso. La protagonista è un corpo imprigionato dal desiderio, che trova habitat ideale in un stretta pedana, spazio limitato e claustrofobico, atto a raccontare allo spettatore la prigionia di una identità ossessionata dal desiderio di essere “altro da ciò che si è”.
L’eccellente interpretazione di Chiara Favero fa sì che Emma Bovary si comporti come un animale costretto in una gabbia, tormentata dalla noia di un’esistenza insulsa, schiava della compulsività bulimica espressa dal disordine alimentare e sessuale simboleggiante il desiderio negato, ridotta sul lastrico dalla spinta consumistica che vuole nell’affanno per il possesso degli oggetti l’ottimale definizione della scalata sociale verso uno status ideale irrealizzabile.
Emma acquista, mangia e soffre smodatamente, impotente di fronte alla ricerca di un appagamento impossibile. La vorace Emma, nell’affanno della sua corsa verso la ricerca di una felicità utopica, ispirata dal modello ideale delle eroine sentimentali dei romanzi di cui è avida lettrice, divora arsenico rubato per trovare nell’agonia auto-inflitta l’unico segno verace del suo esistere: il suono vivo e pulsante del suo stesso cuore dolente.