Dopo i capolavori di Welles, Kurosawa e Polanski, è il regista australiano Justin Kurzel a portare sullo schermo una delle opere più affascinanti, potenti e contraddittorie di William Shakespeare, il “Macbeth”. Sotto le linee direttive di Kurzel, il racconto è costruito come un’inevitabile discesa nell’oscurità. Il film , presentato in concorso alla 68esima edizione del Festival di Cannes, è segnato da atmosfere solenni, da toni cupi e tetri, che presentano i contorni ovattati e l’innaturale silenzio tipici di un sogno. La spaventosa discesa nell’incubo del protagonista è accompagnata da paesaggi che si fanno sempre più tenebrosi, in un crescendo di nebbia fitta e pioggia, di echi e rimbombi, che coinvolgono lo spettatore conducendolo negli angoli più remoti di una tragedia fosca, cruenta, in cui dominano il male e l’insanità mentale.
Ma perché continuare a portare in scena, o sullo schermo, opere così antiche come il Macbeth Shakespeariano?
La trama, di certo, la conosciamo tutti: il nobile istigato dalla profezia delle tre streghe, interpretato da un superbo Michael Fassbender, che sfocia nell’abisso della crudeltà e dell’infermità mentale, conseguenti alla sua insaziabile ambizione e sete di potere, che vede nell’assassinio l’unica via per la conquista del trono, affiancato dalla gelida e spietata Lady Macbeth di Marion Cotillard, che spinge il marito all’omicidio, salvo poi farsi annientare da un tremendo senso di colpa e gettarsi in una delirante follia.
Ma cos’è che rende davvero unica e indimenticabile la trasposizione cinematografica diretta da Kurzel?
Memorabile del progetto del giovane regista australiano, è sicuramente il suo sguardo visionario, la rivisitazione dei sentimenti umani tramite la proiezione di un senso ineluttabile di astrazione dalla realtà, dove tutto è meccanizzato e brutalizzato, dove i personaggi sono guidati solo dall’istinto di sopraffazione e dalla sete di potere e conquista, dimenticando ogni genere di etica e morale.
Il tutto è accompagnato da atmosfere lugubri e macabre, dall’utilizzo della slow motion nelle sequenze di battaglia, da musiche da brivido intrecciate con minuzia con lo scorrere rilento delle immagini, dalla desaturazione dei colori, dall’interpretazione superba dei due attori protagonisti, capaci di regalarci un’interpretazione forte e intensa, trascinando lo spettatore in una dimensione atemporale, dalle sfumature tanto oniriche, quanto tragiche.
Ciò che maggiormente colpisce, è il colore dominante nel finale del film, un rosso fuoco che ci lascia con l’immagine di una Scozia imbrattata di quello stesso sangue “che torna sempre ad infettar colui che l’ha insegnato”, come un’eterna condanna, un destino già scritto in quell’immagine di morte presente nella scena d’inizio, quella del funerale del figlio di Macbeth, presagio di una corona senza discendenza e di una fine enunciata, poiché, come dice Macbeth stesso: “la vita è solo un’ombra che cammina: un povero attore che incede e si agita sul palcoscenico, e poi non lo si sente più: è una storia raccontata da un idiota, piena di rumori e rabbia, che non significa niente.”