Capita che il cronista che dovrebbe raccontare e limitarsi a fotografare la realtà a volte non ce la faccia proprio a non andare oltre. L’Italia violentata dalla furia della natura è una realtà che abbiamo raccontato decine e decine di volte. Sono giorni che, ormai tristemente, arrivano immagini e reportage da Genova dove, dapprima, rabbia e poi accenni di analisi dell’ennesima alluvione fanno sorgere tante e tante domande che, purtroppo, o non hanno risposta o ne hanno tante e ovvie.
Amìala ch’â l’arìa amìa cum’â l’é
amiala cum’â l’aria ch’â l’è lê ch’â l’è lê
amiala cum’â l’aria amìa amia cum’â l’è
amiala ch’â l’arìa amia ch’â l’è lê ch’â l’è lê
E’ l’incipit di una (secondo chi scrive, naturalemente) delle più belle canzoni mai scritte da penna umana: “Dolcenera” di Fabrizio De Andrè che di Genova fu esponente musicale fra i più alti ma anche fra i più spigolosi. Quell’incipit di una ‘banale’ canzone d’amore cosa c’entra con l’alluvione genovese? C’entra, purtroppo, e pure tanto. Che sia stata scritta, questa poesia in musica, in ricordo dell’alluvione del 1970 ormai è un dato storico, ma che rimanga più nitida di una cronaca scritta da qualsiasi reporter presente alla sciagura è più che certo.
La potenza della poetica di De Andrè qui opera un prodigio linguistico e pennella un’affresco a futura memoria che non potrà mai sparire e che tutti, cittadini e politici, dovrebbero avere ben fotografato, ma che invece ci accorgiamo non conoscono affatto.
La ‘trama’ è semplice ma val bene ricordarla, il protagonista aspetta e vede arrivare la sua amata (per un convegno amoroso non prorpio convenzionale visto che la signora risulta maritata all’anagrafe) proprio mentre si scatena la furia degli elementi e quell’incipit è una pennellata di colore che squacia il grigiore del racconto di una sciagura. Lei arriva muovendosi sinuosamante e s’insinua nella mente del protagonista così come le gocce di pioggia hanno il potere di attrarre nel loro portato melanconico, non facendo rendere conto i protagonisti di ciò che stanno vivendo. I sensi non percepiscono a pieno la realtà ma si nutrono di se stessi.
I versi successivi sono terrificanti, ma affascinanti allo stesso tempo rispetto a che li si riferisca alla donna o alla pioggia.
…nera che picchia forte che butta giù le porte…
E ancora:
…acqua che ha fatto sera che adesso si ritira,
bassa sfila tra la gente come un innocente che non c’entra niente…
Fino a:
…acqua che stringe i fianchi tonnara di passanti…
Concludendo con il coretto in lingua (di cui alleghiamo per completezza la traduzione)
âtru da stramûâ
â nu n’á â nu n’á
(Altro da traslocare non ne ha non ne ha)
atru de rebellâ
â nu n’à â nu n’à
(Altro da trascinare non ne ha non ne ha)
Cronaca di un amore finito male e di una catastrofe che s’incrociano ineluttabilmente nel verso:
ma la moglie di Anselmo non lo deve sapere
ché è venuta per me
è arrivata da un’ora
e l’amore ha l’amore come solo argomento
e il tumulto del cielo ha sbagliato momento
Si parlava del 1970 e da alloram solo nell’ultimo decennio, contiamo almeno tre alluvioni e tutte distruttive. Le motivazioni sono sotto gli occhi di tutti e i problemi idrogeologici non sono più un segreto come quando il grande maestro Indro Montanelli diceva ai liguri : «…Nella distruzione della vostra Riviera è responsabile tutta la vostra classe dirigente, non soltanto quella politica. Ne sono responsabili quella imprenditoriale, quella finanziaria, quella mercantile, quella alberghiera. Tutti. Tutti, anche il cosiddetto uomo della strada: tutti abbacinati dall`irruzione dei cantieri, fabbriche di miliardi e di posti di lavoro; dalla speculazione edilizia che prenderà ha preso d’assalto il promontorio dando agl`indigeni la grande occasione di arricchirsi con un orto. Che pacchia! Una pacchia che durerà sei, sette, dieci anni, per poi ridurre questo angolo d’immeritato paradiso alla solita colata di cemento e di asfalto».
Parole scolpite nella pietra si potrebbe dire, ma Genova e i genovesi hanno bisogno di fatti e non di parole potrebbero dire i soliti pragmatici. Il sindaco Doria dice che è disposto a dimettersi, il presidente della regione Burlando afferma di prendersi le sue responsabilità e il Beppe nazionale annuncia – dal palco del Circo Massimo – che tutti andranno a Genova a “spalare merda”.
Forse un po’ prima sarebbe stato meglio per tutti senza bisogna di dimissioni, mea culpa e sermoni.
Dolcenera era inserita in un album (allora si chiamavano ancora così) “Anime Salve”, di cui lo stesso Fabrizio da una spiegazione in un suo legendario concerto al teatro Brancaccio di Roma
« [Anime salve] trae il suo significato dall’origine, dall’etimologia delle due parole “anime” “salve”, vuol dire spiriti solitari. È una specie di elogio della solitudine.
Si sa, non tutti se la possono permettere: non se la possono permettere i vecchi, non se la possono permettere i malati. Non se la può permettere il politico: il politico solitario è un politico fottuto di solito. Però, sostanzialmente quando si può rimanere soli con sé stessi, io credo che si riesca ad avere più facilmente contatto con il circostante, e il circostante non è fatto soltanto di nostri simili, direi che è fatto di tutto l’universo: dalla foglia che spunta di notte in un campo fino alle stelle. E ci si riesce ad accordare meglio con questo circostante, si riesce a pensare meglio ai propri problemi, credo addittura che si riescano a trovare anche delle migliori soluzioni, e, siccome siamo simili ai nostri simili credo che si possano trovare soluzioni anche per gli altri.
Con questo non voglio fare nessun panegirico né dell’anacoretismo né dell’eremitaggio, non è che si debba fare gli eremiti, o gli anacoreti; è che ho constatato attraverso la mia esperienza di vita, ed è stata una vita (non è che dimostro di avere la mia età attraverso la carta d’identità), credo di averla vissuta; mi sono reso conto che un uomo solo non mi ha mai fatto paura, invece l’uomo organizzato mi ha sempre fatto molta paura. »
Ecco, ora è il caso di smettere di essere Anime salve.