Il 1° giugno del 1970 moriva Giuseppe Ungaretti. Cinque mesi prima, nella notte di Capodanno, aveva scritto quella che è nota come la sua ultima poesia: “L’impietrito e il velluto”.
La proponiamo qui, come modesto contributo di omaggio al grande poeta nel cinquantenario della morte, accompagnandola con una riflessione nostra che ha solo lo scopo di rilevare l’attualità di quello che ci è parso il suo testamento, concentrato nella parola finale: pietà, un sentimento che neppure l’esperienza di una pericolosa pandemia globale riesce ad imporre a tutte le coscienze.
Ungaretti, un omaggio
È lo stesso autore a darci la data della lirica. Nell’edizione dei “Meridiani” di Mondadori del 1970, in cui fu inserita, si legge in calce al testo, nello stile di molte liriche delle prime raccolte ungarettiane, l’indicazione “Roma, notte del 31 dicembre 1969 – mattina del 1° gennaio 1970”.
Già pubblicata a parte accompagnata da due acqueforti di Piero Dorazio, nell’edizione dei Meridiani essa è la seconda di un “dittico” dedicato a Dunja. Una donna croata conosciuta dal poeta negli ultimi anni della sua vita, la quale gli ricorda un’altra Dunja, la vecchia tata croata che occupò un posto importante nella sua vita di bambino dopo la scomparsa del padre (operaio, ricordiamo, nella costruzione del canale di Suez, morto in un incidente quando il poeta aveva appena due anni).
La dolcezza della donna presente si fonde con lo struggimento del ricordo della Dunja del passato, e il presentimento della morte (il poeta aveva 85 anni) fa tutt’uno con la dolcezza del ricordo.
Ma la poesia non è solo questo. A leggerla con attenzione vi si scorgono più che tracce delle fasi salienti del percorso poetico di Ungaretti: il messaggio – o piuttosto l’anelito all’Assoluto – del “Porto sepolto” e dell’”Allegria”, la ricerca filosofica e mistica del “Sentimento del tempo”, la profonda e sentita umanità del “Dolore”, e perfino lo scavo nella cultura antica della “Terra promessa”, sono tutti presenti e palpabili in questa lirica.
L’impietrito e il velluto
Ho scoperto le barche che molleggiano
Sole, e le osservo non so dove, solo.
Non accadrà le accosti anima viva.
Impalpabile dito di macigno
Ne mostra di nascosto al sorteggiato 5
Gli scabri messi emersi dall’abisso
Che recano, dondolo nel vuoto,
Verso l’alambiccare
Del vecchissimo ossesso
La eco di strazio dello spento flutto 10
Durato appena un attimo
Sparito con le sue sinistre barche.
Mentre si avvicendavano
L’uno sull’altro addosso
I branchi annichiliti 15
Dei cavalloni del nitrire ignari,
Il velluto croato
Dello sguardo di Dunja,
Che sa come arretrarla di millenni,
Come assentarla, pietra 20
Dopo l’aggirarsi solito
Da uno smarrirsi all’altro,
Zingara in tenda di Asie,
Il velluto dello sguardo di Dunja
Fulmineo torna presente pietà. 25
“L’impietrito e il velluto”
Il titolo mette in relazione due opposti: la durezza della vita, con le sue esperienze dolorose, e la soffice sensazione di abbandono che si può avere mettendosi nelle mani di una donna (Dunja, la tata dell’infanzia, ritrovata in un’altra Dunja, la giovane croata amata dal poeta nella vecchiaia).
La struttura della lirica risponde, come sempre in Ungaretti, non a un disegno preordinato ma allo svolgersi dei contenuti:
-un distico iniziale
-un verso isolato
-tre strofe di 9, 4 e 8 versi
-il verso conclusivo, isolato
Il distico iniziale e il primo verso isolato (vv. 1-3)
La lirica inizia con una visione epifanica: barche che si muovono dondolandosi leggermente con morbido movimento sull’acqua.
Che si tratti di epifania, in quanto visione significativa di qualcosa, è subito certificato dal verbo iniziale (“Ho scoperto”, cioè ho visto con lo sguardo di chi scopre una novità, con l’innocenza – se è permesso l’accostamento – del fanciullino pascoliano).
Le barche sono sole – non c’è presenza umana – e solo è il poeta-osservatore, in luogo imprecisato (“non so dove”).
L’atmosfera impalpabilmente solitaria è confermata più volte quasi ossessivamente: l’aggettivo “solo” che apre e chiude il verso 2 (precisamente, “sole” le barche e “solo” il soggetto poetante), nonché l’isolamento tra due spazi vuoti del verso successivo, che contiene un ampliamento dello stesso concetto: non accadrà che anima viva si accosti alle barche (o che accosti le barche alla riva: in ogni caso si ribadisce la solitudine).
Naturalmente, l’espressione “anima viva” in un testo di Ungaretti andrà intesa non solo nel senso di “nessuno” che ha nel linguaggio comune, ma nel suo senso letterale, evocando così un’atmosfera da aldilà (anche le barche evocano la barca di Caronte) e suggerendo una vera e propria catabasi (che sembra generata da un presentimento di morte).
La prima strofa (vv. 4-12)
La strofa più lunga inizia con l’immagine di un non meglio precisabile dito, che ha caratteristiche ossimoriche: “impalpabile” come l’assoluto che Ungaretti ha sempre cercato e “di macigno”, cioè pesante come un macigno, data la consistenza infinita di quest’assoluto; ma l’ossimoro può anche riferirsi al poeta stesso, che indica (questo pare il senso metaforico del dito) agli altri in modi difficili, impalpabili, la verità che è come un macigno per l’entità enorme della rivelazione.
Il dito ha il compito di mostrare di queste barche (“ne” = “di esse”) i “messi”.
“Messo” nel linguaggio comune è il “messaggero”, ma nell’italiano antico (del Duecento) è il “messaggio”, e nel linguaggio letterario (es. Boccaccio) è anche “pietanza, vivanda servita in tavola”: dunque giungono dal mare messaggeri, o – che poi è pressoché lo stesso – giungono messaggi dal profondo, e forse possiamo anche pensare che tali messaggi vengano imbanditi come pietanze al misterioso ospite mandato dal fato (“al sorteggiato”), ma solo a lui (“di nascosto”: ricorda “Il porto sepolto”, in cui solo il poeta può immergersi nel profondo donde poi emerge per portare la verità agli altri attraverso la sua poesia). I messaggi sono “scabri”, essenziali (e così è la poesia di Ungaretti) e vengono “dall’abisso” (ancora una volta ricorda “Il porto sepolto”).
Questi messaggi, attraverso il dondolare delle barche, che fa pensare a un “dondolo” (nel senso antico di “ciondolo”, “pendolo”) che si muove nel vuoto, recano al poeta, che da tempo immemorabile cerca l’assoluto negli abissi, l’eco della sofferenza che tale ricerca costa, per cui una scoperta è un’intuizione che dura appena un attimo, come l’effetto di un’onda (“flutto”) che scompare quando è scomparsa l’onda stessa.
“L’alambiccare del vecchissimo ossesso” sembra indicare l’attività del poeta, che cerca la verità nell’abisso: il verbo è neologismo formato da alambicco, che è un apparecchio per la distillazione, e allude probabilmente al lavorio lento e continuo (che fa pensare al processo di distillazione) dell’uomo (= del poeta) che è teso alla verità, all’assoluto, fin dai tempi più remoti (“il vecchissimo ossesso”: l’uomo “obsessus”, “assediato” dai suoi pensieri, dalle sue ansie, dalle sue ricerche fin dai primordi). E quando dolorosamente scompare l’intuizione (= l’onda), scompare anche l’immagine che l’ha portata (= le barche).
La seconda strofa (vv. 13-16)
Segue una breve strofa che inizia un discorso che rimane sospeso dal rigo bianco per riprendere nella strofa successiva e concludersi, dopo altro rigo bianco, nel verso finale: mentre le onde si accavallavano (si noti il passaggio dal presente delle strofe precedenti al passato, che indica un passaggio della vita: i cavalloni non ci sono più, si annuncia un nuovo equilibrio, che sarà segnato dalla pietà dell’ultimo verso della lirica) l’una sull’altra come cavalli in branco che non sanno nitrire (forse perché non sanno esprimersi compiutamente: se il “flutto”, l’onda dei versi precedenti è metafora dell’idea, dell’intuizione, allora qui si parla del processo per cui il poeta cerca di arrivare alla verità, all’assoluto, e dei suoi tentativi che si succedono); mentre dunque il poeta cercava …
La terza strofa (vv. 17-24) e il verso finale (v. 25)
…ecco che si accampa l’immagine salvifica: Dunja, la donna croata che il vecchio Ungaretti ha appena conosciuta. Essa rappresenta da una parte l’ultimo amore del poeta, dall’altro (con saldatura fortissima) il ritrovamento di una figura importante della sua infanzia: Dunja, la donna che, dopo la morte del padre di Ungaretti, fu assunta dalla madre del futuro poeta, al quale fece da tata, e al quale insegnò a sognare raccontando storie incredibili come lei solo sapeva farlo (ce lo dice lo stesso Ungaretti nella presentazione che fa delle due poesie dedicate alla donna).
Lo sguardo dolce vellutato di Dunja, che la rende antica di millenni e quasi la lusinga (o la allontana: “assentare” è un verbo obsoleto che vale “adulare”, “lusingare” o anche “rimuovere”, “allontanare”: non è esclusa qui una confluenza di entrambi i significati), lo sguardo vellutato di Dunja torna improvviso nella giovane croata (recita il verso finale).
Il passato si fa presente, torna la pietà.
Quest’ultima parola è piena di suggestioni: pietà della donna per il vecchio, pietà dell’antica tata per il bambino che aveva perso il padre, pietà dell’uomo per se stesso, per la propria infelicità, e ancora pietà che il vecchio prova per l’uomo e la sua miseria, o che il vecchio poeta implora dagli altri per non aver saputo risolvere il problema della vita…
Ma sono tutte suggestioni che il poeta lascia nel vago, lasciandoci come proprio testamento, insieme poetico ed esistenziale (che per il Nostro sono la stessa cosa), solo questa parola, che oscilla fra una pietas religiosa e una foscoliana compassione.