Ero arrivato ad averne più di settecento. Doppie, triple, quadruple, quintuple che neanche sapevo si potesse dire e per me erano tutti degli illustri sconosciuti. All’angolo della scuola arrivavano uomini adulti ad aspettare ragazzini come me per fare uno scambio la cui vitale importanza a me sfuggiva del tutto. Nelle case dei miei compagni si consumavano tragedie che neanche mi era possibile immaginare, per colpa di quelle facce a me ignote.
Soldi rubati dai borsellini delle madri, dai salvadanai delle sorelle, dalla cassa dei negozi di famiglia, mentre io ne avevo sempre di più pur non avendone mai comprata neanche una. Erano evidentemente tutti scarti o roba di poco conto e qualcuno dei miei amici me le regalava un po’ per affetto e un po’ per pietà, perché “Dai! Come fai a non averne neanche una?! Sei assurdo!”. E quindi da poche erano diventate tantissime e io passavo il tempo sul pullman che mi riportava a casa a guardarle, a guardare quei ragazzi senza braccia e senza corpo oltre il plesso solare.
Alcuni erano belli, altri erano di una bruttezza epocale, ma avevo capito da tempo che non era la loro eventuale avvenenza a farne dei divi, esattamente come non era la loro bravura in campo a decidere del loro potenziale collezionistico. Dipendeva tutto da un algoritmo di aggiunta e sottrazioni numeriche che neppure il più moderno motore di ricerca odierno potrebbe replicare. E in quella magia c’ero anche io con la mia capacità di fare volare contro il muro quel “santino” che non prometteva indulgenze ma solo dannazione. E vincevo, vincevo come il dannato che ero: il dannato che non aveva neanche l’album, che non era mai entrato in uno stadio, mai seguito un campionato, il dannato nato senza un’anima per il calcio.
L’ultimo giorno di scuola delle medie ero lì, con la cartella da venticinque chili, perché dovevo restituire tutti i libri che mi erano stati prestati per tre anni dall’istituto. Quando ebbi posato l’ultimo volume, quello di musica sul quale campeggiava Vivaldi vestito da prete, vidi quel mazzo enorme, legato da quattro elastici, che ancora meno di quei libri che puzzavano da oratorio di periferia, avrebbe potuto seguirmi in quel tempio della ragione e di fighetti che era la scuola superiore che avevano scelto per me. Uscii dall’ufficio della segreteria dopo avere ricevuto il saluto volutamente indifferente di un sacerdote che mi era stato costantemente col fiato sul collo per un triennio affinché imparassi l’italiano e l”inglese come si deve e me ne andassi da quel quartiere per sempre.
E con la stessa assoluta indifferenza diedi il mio mazzo ad un ragazzino sconosciuto nella coda di quelli che erano lì per prendere in prestito i libri che quelli come me avevano riconsegnato. Guardai i suoi occhi impauriti di bambino destinato ad un impensabile futuro e nel consegnargli le mie più di settecento figurine dell’Album dei Calciatori 1975 – 1976 ne sfilai una soltanto.
Quella di uno il cui nome mio nonno, che se n’era andato da poco, urlava tutte le volte che quell’uomo segnava, tirando un pugno fortissimo sul tavolo su cui io ceno ancora oggi e che è ancora ammaccato da allora proprio vicino alle briciature delle sue Nazionali senza filtro. E tutte le volte che quell’uomo segnava, per via di quel pugno, mio padre doveva riparare l’orologio a mio nonno, perché tutte le volte Pulici aveva nuovamente fermato il tempo.
Foto di copertina generata con Copilot per Cinque Colonne Magazine