Roma e i suoi quartieri
Lo chiamavano Tyson di Mauro Valentini edito da Armando Editore è un interessante affresco di alcuni grandi quartieri di Roma che, anziché includere, allontanano dalla vita pulsante della città, intere famiglie.
Fausto Colasanti, detto Tyson, non riesce a controllare la rabbia. Probabilmente la sua è una reazione all’ambiente che lo ha accolto fin da ragazzino, una rabbia contro le ingiustizie di quella società che dovrebbe includerlo e non escluderlo, che ha regole proprie che una persona di animo sensibile come il suo non riesce ad accettare, e a cui si ribella con manifestazioni violente e incontrollate.
Ad un certo punto, la vita di Fausto Colasanti subisce una virata. Un nuovo lavoro in collaborazione con un amico, lo porta nella villa di un importante manager. Fausto Colasanti è addetto alla sorveglianza dell’abitazione, ma un giorno qualcosa non per il verso giusto. Il lettore resterà incollato alle pagine di una storia a tratti grottesca, ricca di colpi di scena ed eventi inaspettati.
In questa nuova intervista a Mauro Valentini, l’autore ci racconta alcuni aspetti interessanti legati al suo romanzo, aspetti che andrebbero ulteriormente indagati e su cui è importante che ognuno di noi rifletta.
Lo chiamavano Tyson di Mauro Valentini
Lei ha detto di aver dedicato questo libro “agli sradicati, agli esiliati che hanno popolato i quartieri ghetto della Capitale”. C’è stato un evento che l’ha colpita particolarmente e che l’ha spinta ad affrontare questo argomento?
Non proprio un evento, ma un generale senso di isolamento che quei grandi quartieri hanno determinato nelle migliaia di famiglie costrette a viverci. Quartieri costruiti senza una logica inclusiva rispetto alla città e quindi essi stessi città con regole interne e spesso dure.
La rabbia e la violenza sono tratti caratteristici del suo protagonista, Fausto Colasanti, detto anche Tyson. Perché la violenza è un tratto distintivo del suo carattere?
Tyson in fondo non è un violento nel senso letterale del termine. Anzi, è un uomo di grande passione, per la musica, per la lettura e finanche per il prossimo. Lui però non controlla la rabbia che gli si scatena difronte alle ingiustizie della vita. Ha un concetto di onore e di ragione che prevarica sempre, mettendolo nei guai.
Alla fine del libro, il suo personaggio si trasforma? Le vicende che lo coinvolgono intaccano la sua coscienza?
Difficile rispondere senza svelare elementi fondamentali della trama. Posso dire che Tyson sarà un uomo diverso dopo quello che accadrà in quella settimana d’agosto in cui tutto accade.
C’è un messaggio che vuole lasciare ai lettori con il suo romanzo o qualcosa di importante su cui riflettere?
Non credo che ci siano messaggi sociologici o una morale in questa storia che gira attorno a Tyson ma che conta almeno dieci personaggi tutti con un vissuto forte alle spalle e che esploderà insieme alla storia. Però una cosa mi ha fatto riflettere mentre scrivevo: quanti Fausto Colasanti ci sono in questi quartieri ai margini delle grandi città? Quanti uomini e donne con talento e capacità sono stati inghiottiti in questi anni da quell’ambiente dove per esser rispettato devi agire con violenza e disprezzo delle regole. Ecco, io penso a loro, a quelli che avevano tutto per farcela, per diventare migliori, ma che non ci sono riusciti.
Lo chiamavano Tyson è il suo primo romanzo. Lei si è sempre occupato di temi di cronaca e attualità. Com’è stato scrivere un romanzo? E’ riuscito liberamente a dare sfogo alla sua fantasia oppure è capitato anche a lei di affrontare il terribile stress da pagina bianca?
No, le pagine si sono colorate e riempite con grande velocità. Forse perché dopo tanto rigore nella narrazione documentata e piena di riscontri e carte processuali, lasciar agire i personaggi protagonisti secondo la fantasia e l’ardire del narrare mi ha fatto sentire libero.
Che progetti ha per il futuro? Pensa di scrivere un altro romanzo?
In realtà un altro romanzo è già pronto e sto seriamente pensando a una sorta di “Trilogia della gabbia”. Chi leggerà Tyson capirà cosa intendo. Vorrei continuare a scrivere noir o comunque storie di grandi passioni e dai colori forti, perché sento che questo è un genere a me congeniale, anche se non posso escludere che la cronaca mi riporti, tra qualche anno, alle origini. Ma qualunque storia racconterò, avrà sempre un respiro narrativo, anche di fatti realmente accaduti. Perché quando si supera il guado che separa il narrare giornalistico da quello letterario, quando ci si sente pronti per fare quel salto, è impossibile tornare indietro.