Ieri 9 maggio si sono incrociate le storie di due uomini siciliani vittime della mafia: Rosario Livatino e Peppino Impastato. Il primo è stato dichiarato beato, del secondo ricorreva il 43simo anniversario della morte. Due storie diverse, due ruoli distanti ma alla base lo stesso coraggio nel combattere quella “montagna di merda” che è la mafia in una stagione nella quale non furono risparmiati bossoli e tritolo.
Il giudice ragazzino
Al mattino, prima di recarsi in Procura ad Agrigento, da Canicattì dove viveva con i suoi genitori, Rosario Livatino era solito recarsi in chiesa. La sua profonda fede cattolica era nota a tutti, anche ai suoi nemici, tanto da guadagnarsi il nomignolo di “santocchio”, e guidava come un faro la sua professione di magistrato. Lo guidò nelle numerose inchieste sugli interessi della mafia nell’imprenditoria locale, sui legami tra mafia e politica. Lo guidò quando, in occasioni di alcuni convegni, ebbe l’occasione di illustrare quella che era la sua idea di magistrato; una figura autonoma e indipendente, libera da ogni potere, lontana da mire politiche, e rispettoso di tutti gli attori che entrano nei vari procedimenti. Una figura che, su queste basi, poteva costruire un rapporto con Dio.
La sua fede non andava giù ai suoi nemici che avevano addirittura progettato, secondo alcune testimonianze, di ucciderlo proprio davanti alla chiesa nella quale si recava tutti i giorni prima di andare al lavoro. La scelta della stidda agrigentina cadde poi, come sappiamo, sulla statale 640 Caltanissetta-Agrigento, la strada che percorreva tutti i giorni per andare in Procura. Questo “odium fidei” che la mafia provava rispetto al giudice Livatino è stato il punto di partenza, per la Congregazione delle cause dei santi, nella causa di beatificazione. Il giudice Livatino è stato reso beato perché ritenuto un martire in virtù della sua fede. Si ricorderà ogni anno il 29 ottobre.
La bellezza contro la paura
A Cinisi, nel palermitano, sorge la Casa Memoria Peppino e Felicia Impastato. E’ il luogo in cui si narra la storia di Peppino Impastato, del suo impegno politico, della sua lotta contro la mafia. E’ il luogo in cui si racconta anche la storia di sua madre Felicia. Una donna che con grande coraggio ruppe il muro di omertà che difendeva i parenti mafiosi del marito e con grande determinazione riuscì a ottenere verità e giustizia per suo figlio. Quando Peppino fu ritrovato dilaniato dal tritolo sui binari del treno, la polizia ne parlò come di un attentatore rimasto ucciso nella sua impresa. Per dimostrare la verità, cioè che Peppino era stato ucciso per ordine di Gaetano Badalamenti, Felicia, insieme all’altro figlio Giovanni, ha dovuto lottare per più di vent’anni.
Livatino e Impastato due vittime della mafia
La morte di Peppino Impastato, avvenuta il 9 maggio 1978, è sempre rimasta nel cono d’ombra di un altro evento che ha sconvolto l’Italia intera: il ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani a Roma. Quest’anno, in più, l’anniversario ha coinciso con la beatificazione del giudice Livatino; data scelta per ricordare il 9 maggio 1993 e l’anatema che papa Giovanni Paolo II lanciò, durante la celebrazione nella valle dei templi di Agrigento, ai mafiosi. La lotta alla mafia porta le firme di tanti uomini che, pur in ruoli diversi, hanno levato la loro voce. Nomi che dovrebbero essere tutti ugualmente ricordati.