L’Italia è il paese dell’anno per l’Economist. Chiedersi il perché è legittimo e crediamo che sia importante farlo in maniera scevra e quanto più oggettiva possibile. E’ fondamentale capire cosa realmente è questo Paese e cosa, invece, è percepito che sia dagli altri.
Alla fine tutta la disamina è proprio focale su questo punto. Non tanti anni fa, lo ricordiamo ancora oggi un po’ tutti, siamo stati sull’orlo del baratro ed a un passo dal fallimento a ruota di altre nazioni che, purtroppo, hanno dovuto subire trattamenti internazionali ben più vessatori dei nostri.
Ebbene si, era l’epoca dell’ultimo governo Berlusconi e scoppiava la crisi economica più dura dal 1929 nel sistema capitalistico internazionale. Imparammo a conoscere termini che al solo pronunciarli ci creavano crisi di ansia: lo spread, per esempio, divenne una sorta di mannaia che avemmo sul collo per mesi e mesi.
L’Italia è il paese dell’anno per l’Economist. Cosa era qualche anno fa?
Le lettere dell’Unione Europea, la richiesta di regolarizzare i debiti. I sorrisi ironici di Francia e Germania che guardavano il nostro premier come una specie di fenomeno da baraccone; l’azione di governo senza nessuna credibilità, fino alla richiesta di un governo tecnico che togliesse le castagne dal fuoco.
Arrivò Mario Monti con la prof.ssa Fornero, le riforme di pensioni e lavoro. Lacrime e sangue tamponate solo dall’azione di Mario Draghi dalla Banca Europea che s’inventava il “Quantitative Easing” per dare aria a Paesi come il nostro che rischiavano seriamente o l’asfissia finanziaria o peggio, la bancarotta.
Da allora ne sono successe che ne sono successe in Italia a livello politico e di sistema Paese. Siamo passati per Renzi, il governo giallo verde e quello giallo rosso (ci scusiamo per aver usato termini senza alcun senso ma ormai di uso comune) poi è scoppiata la pandemia e arriviamo ai giorni nostri.
Invece, continuiamo così facciamoci del male…
Questo piccolo ‘recap tecnico’, ad uso e consumo dei lettori con memoria più labile, serve a dare il quadro esatto entro il quale l’Italia passa dall’essere un Paese “appestato” a indicatore della via per tutti gli altri. Il primato che l’Economist ci riconosce significa essenzialmente questo e non altro.
Nella più consolidata tradizione benaltrista, che attraversa sistemicamente da destra a sinistra e dall’alto in basso lo stivale, ovviamente si è subito buttata lì, sciovinisticamente, l’affermazione: ma di chi è l’Economist? Ci avete pensato? Perché solo ora l’Italia è diventata buona?
Ci risparmiamo le risposte ovvie, ormai in questo paese l’informazione pura non la fa più nessuno. Non c’è bisogno di novelli Cristoforo Colombo che ci vengano a comunicare queste eccezionali novità. Gli editori o hanno finalità ed obiettivi economici o politici; a volte entrambi convergono. Nulla di nuovo.
Bene, detto questo che dovremmo fare? Batterci il petto con spugne intrise di pezzi di vetro? Oppure il gioielli di famiglia come il buon Tafazzi? Ci dicono che siamo buoni, andiamo bene, la nostra economia non boccheggia e a noi non va bene? Cari signori del “sono-sempre-contro-qualcosa” era meglio quando ci consideravano spazzatura da buttare?
L’Italia è il paese dell’anno per l’Economist: rimpianti e futuro
Rimpiangete quel periodo? ‘Stavamo meglio quando stavamo peggio’? Non vogliamo credere che per voi sia così.
Detto ciò, in Italia va tutto bene? Nemmeno per idea. Ci sono mille cose da fare, diecimila riforme da attuare, centomila cambiamenti da porre in essere. Modernizzare la pubblica amministrazione; fare ed attuare riforme fiscali, combattere l’evasione intervenire per rendere più equa la distribuzione delle ricchezze, lavorare per equilibrare nord e sud… tante cose..
The Economist
«…Mario Draghi è competente e rispettato a livello internazionale» … «per una volta, un’ampia maggioranza di politici ha messo da parte le proprie divergenze per sostenere un programma di riforme profonde»
Due righe, non di più, sono quelle utilizzate dal giornale per motivare il perché di quella considerazione internazionale di cui ora l’Italia gode, in maniera semplice e lineare. Non crediamo ci sia null’altro da aggiungere se non rivendicare il valore del silenzio.