I docenti di ogni scuola ed ogni grado si trovano non di rado a dover far fronte a difficoltà sempre nuove riguardanti l’apprendimento, con relative modalità, degli studenti. La situazione si complica quando è il disagio giovanile ad ostacolare non solo la tradizionale trasmissione di conoscenze, ma tutto quel complesso fatto di emozioni, confronti, spirito di cooperazione che caratterizza la relazione tra chi insegna e chi apprende. Il docente deve essere, ancor prima che insegnante, un educatore, nella misura in cui segue lo sviluppo dell’allievo in maniera non astratta, ma partecipe e compartecipe, non assurgendo unicamente al ruolo di “dispensatore di nozioni”. Compito precipuo di un insegnante, e di tutta la scuola, è quello di formare il discente, nell’accezione più completa del termine. Una formazione che tenga sempre presente l’unicità dell’individuo, in tutte le sue sfaccettature culturali, psicologiche, valoriali, ma soprattutto umane e relazionali.
Capita però che il rapporto docente-discente sia in qualche modo falsato dall’impossibilità dell’insegnante di ritagliarsi i giusti spazi per conoscere l’alunno individualmente. Motivo questo per cui lo stesso alunno attribuisce spesso agli insegnanti un ruolo puramente strumentale e non una funzione educativa. Un insegnamento, ma anche un’educazione in senso lato, costruita ad hoc sull’allievo, che tenga conto della strutturazione della sua personalità, delle sue attitudini, delle sue problematiche, è una via d’accesso privilegiata all’apprendimento. Lo studente che viene posto al centro di un percorso formativo, che sente riconosciute le proprie aspirazioni e non banalizzati i problemi personali, è verosimilmente più motivato ad apprendere.
L’insegnante, come facilitatore d’apprendimento, attraverso riflessioni ed azioni, stimola ed incoraggia gli allievi, consentendo loro progressivamente di spostarsi dalla situazione “primitiva” in cui si trovano al punto in cui desiderano arrivare. A tal proposito, abbiamo coinvolto in un interessante confronto a più voci Maria Gabriella Carrella, insegnante di sostegno, e Francesco Cutolo, insegnante d’inglese, entrambi nella scuola primaria.
Si sta diffondendo sempre di più l’idea dell’insegnante come facilitatore di apprendimento. Ogni individuo è diverso dall’altro e dunque ha competenze, potenzialità, punti di forza e di debolezza differenti. Come bisogna relazionarsi in tal senso nei confronti degli allievi?
I programmi per la scuola elementare dell’85 la delinearono come un autentico ambiente educativo e di apprendimento fondato su una didattica di tipo laboratoriale. In effetti per laboratorio non s’intendeva un luogo fisico, ma una modalità educativo-didattica che rendesse l’alunno protagonista attivo del processo educativo e non solo soggetto passivo. La vera rivoluzione era quella di una didattica che mirasse alla centralità dell’esperienza, una scuola quindi come luogo di sperimentazione. Tali premesse ponevano le basi di una rivisitazione anche del ruolo del docente nel processo d’insegnamento-apprendimento. Veniva proposta la figura di un insegnante facilitatore che andasse oltre l’idea di lezione frontale e che si ponesse in maniera nuova nei confronti dell’alunno, creando occasioni di apprendimento attraverso dei “setting” mai approssimativi e sempre finalizzati al raggiungimento degli obiettivi programmati. Tutta la pedagogia del secolo scorso e quella più recente ci dice che ogni bambino è un soggetto con proprie caratteristiche individuali, con un proprio stile di apprendimento e soprattutto con i propri tempi. L’insegnante nella sua progettazione/programmazione deve dunque proporre un curricolo quanto più individualizzato, creando situazioni empatiche capaci di superare il concetto classico di disciplina, cogliendo le potenzialità di ciascun bambino e sfruttando nei casi di soggetti diversamente abili o B.e.s. (bambini con “bisogni educativi speciali” –ndr), tutte quelle conoscenze specifiche che i singoli casi richiedono. L’alunno deve essere accolto in un ambiente sereno a sua misura, altresì strutturato per raggiungere lo scopo educativoformativo cui è deputato. L’insegnante deve essere il “mediatore-facilitatore”, che conosce bene le dinamiche di gruppo e le tecniche di “circle time”, sa come stimolare il problem solving e sa come sfruttare tutto ciò nel processo educativo e di apprendimento del discente. Questo è il grande salto culturale che richiede la scuola al passo coi tempi, dove la tecnologia e i codici necessari per padroneggiarla sono di dominio comune e quotidiano, dove per dirla con il grande pedagogista Morin, si preferisce ad un alunno con una testa “ben piena” un alunno con una testa “ben fatta”. Laddove per testa “ben fatta” s’intende anche quello che nel nuovo quadro europeo delle competenze è definito come “capacità imprenditoriale”, cioé creare i presupposti per un’educazioneformazione permanente dell’individuo, per renderlo capace di padroneggiare la “semplessità”, quel trovare soluzioni semplici, ma non qualunquistiche alle domande di una realtà sempre più complessa.
Che incidenza ha nell’apprendimento la cooperazione insegnante/allievo? E quali sono i modi per sviluppare il senso di copartecipazione?
Nella cultura anglosassone le tecniche di cooperazione alunno/insegnante ma anche alunno/alunno sono definite “cooperative learning”. Il concetto di apprendimento assume il significato di un processo che si svolge in un clima di grande collaborazione tra tutte le parti impegnate nel processo stesso. In effetti il sapere è concepito come un patrimonio comune, come qualcosa che si può condividere, rielaborandolo secondo il proprio stile di apprendimento e “rimettendolo in campo” a disposizione di tutti in maniera mutualistica ma anche critica, per far sì che tutti possano arrivare a possedere delle abilità e delle competenze minime da spendere in ambiti sia pur più ristretti. In effetti già il grande pedagogista americano Rogers aveva nel secolo scorso schematizzato il posizionamento dell’insegnante e del gruppo classe, andando oltre l’dea di lezione frontale e riconoscendo tutte le potenzialità del “cooperative learning”. Una simile modalità richiede un rapporto empatico molto forte nel gruppo, che si può creare attraverso il “modellamento su misura” della lezione, che tenga cioè presente nel “setting” tutte le variabili in causa, da quella ambientale a quella temporale e che rispetti il più possibile le individualità di ciascun bambino.
Avete affermato che nella facilitazione d’apprendimento gioca un ruolo fondamentale la componente empatica. Perché?
Rispondere a questa domanda significa in parte andarsi a guardare tutta la pedagogia del secolo scorso, dalla “scuola di Barbiana” a Montessori e spingendosi oltre o tutti gli studi sul comportamentismo passando finanche per Freud. Per restringere il campo, diremo però, che ogni docente sa bene che creare un rapporto empatico in classe significa creare i presupposti perché si crei un clima positivo e sereno capace di stimolare quelle “sinapsi” che pare siano alla base dei processi di apprendimento del nostro cervello. Una lezione dovrebbe essere qualcosa che vada oltre il concetto spazio-tempo, che anche sia pur realisticamente la scuola richiede, un insegnante dovrebbe essere capace di stimolare la spontaneità del gruppo classe, creando un clima sereno e di grande accoglienza dello stile e dei tempi di ciascuno. L’alunno deve poter soddisfate il suo bisogno di comunicare e sentire accolte tutte le sue esigenze. Un educatore esperto ed in linea con una scuola che vuole essere veramente luogo di cultura e di formazione, deve saper coglierle ed utilizzarle per la crescita del discente stesso, del gruppo classe e, in ultima analisi, per la propria crescita personale e professionale.