Nel quadro della letteratura meridionalista e in specie siciliana, che ha trattato la situazione dell’Italia meridionale nella fase risorgimentale, “Libertà” di Giovanni Verga, è certamente la prima voce letteraria forte che racconta i giorni oscuri di quegli anni in apparenza pieni di speranze. Il verista Verga, con la sua attenzione costante alla vita delle plebi meridionali, con la sua considerazione che essi sono i “vinti” della Storia e che nessuna forza storica può riscattarli dalla miseria endemica che li affligge, ci racconta in questa breve novella il tragico destino del meridione, attraverso i fatti realmente accaduti a Bronte, un paese della Sicilia, occupato dalle forze garibaldine prima e piemontesi successivamente, dove viene sconfitto per sempre il sogno di una libertà che significhi soprattutto libertà dal bisogno, quella necessaria alle popolazioni del Sud per poter credere anche in una libertà altra, fatta di ideali politici e filosofici. Prima di tutto, ci dice Verga, viene il pane e la terra da coltivare, perché questo pane sia davvero il “pane di ogni giorno”, necessario, meritato, salvifico e la terra il luogo del lavoro e della dignità, non dello sfruttamento e della disperazione.
Nonostante questo concetto che a noi lettori, specie contemporanei, appare evidente nel suo racconto, possiamo affermare che lo scrittore non è mai stato un progressista, solo un liberale, come ebbe a dimostrare successivamente quando approvò nel 1896 la repressione delle proteste sindacali dei Fasci Siciliani ad opera del governo Crispi. Il suo pessimismo lo tenne lontano dal naturalismo francese con cui condivideva la pretesa di scientificità, impersonalità e le idee principali del Positivismo, ma l’attenzione per gli umili non giunse mai in lui alla fiducia in un riscatto sociale attraverso la lotta socialista, come per i naturalisti francesi. Del resto egli nega ai suoi “vinti” non solo una speranza laica e sociale alla maniera di Zola, ma anche quella provvidenziale dettata dalla fede attraverso la quale i personaggi manzoniani trovavano un senso alla loro vita. Verga viveva in sé una strana contraddizione, figlio di borghesi aborriva le classi ricche e provava comprensione e pietà per i poveri e gli umili, ma al di fuori di ogni presa di posizione politica che lo liberasse delle sue idee essenzialmente conservatrici.
I fatti nella novella sono raccontati quindi con pietà umana e non con coscienza sociale e politica di ciò che sta accadendo, eppure è tale il talento dello scrittore, la sua precisione di racconto, la spietatezza con cui gli avvenimenti vengono riportati sulla pagina, l’uso perfetto del suo famoso “discorso indiretto libero” che ci fa sentire accanto alla voce del narratore anche quella dei disgraziati protagonisti della vicenda, che la nostra adesione di lettori partendo dalla pietà non può non giungere ad analizzare con lucidità ciò che accade, a riconoscerne le responsabilità e le motivazioni degli oppressi e degli oppressori, purtroppo figli della stessa terra, “italiani” sotto una stessa bandiera ma non sotto gli stessi diritti.
I fatti di Bronte rappresentano con chiarezza quello che il nuovo governo dell’Italia unita ha intenzione di fare. La gente del sud, i “cafoni” devono restare sudditi, non cittadini partecipi della riorganizzazione del territorio e della distribuzione delle risorse. La riforma agraria, l’unico provvedimento necessario per risollevare il sud, non viene fatta perché non è funzionale alla politica di un governo che vuole, come diceva Mazzini, piemontesizzare il paese, di una monarchia che non intende riconoscere a tutti gli stessi diritti ma solo difendere i propri interessi e non ha la capacità di misurare le tragiche conseguenze dei suoi atti per il futuro dell’Italia.
Eppure quando nel 1860 comincia la folgorante campagna garibaldina in Sicilia, che sbaraglia in poco tempo i Borboni, l’isola è scossa da una speranza di libertà che fa di quell’evento uno dei momenti più esaltanti del nostro Risorgimento.
Nel piccolo paese di Bronte alle pendici dell’Etna, ha inizio una rivolta popolare contro i proprietari terrieri e gli amministratori favorevoli ai Borboni. I contadini, sfruttati come animali dai loro padroni, fanno esplodere tutta la loro rabbia e sfuggono completamente al controllo dei capi politici della rivolta, uccidendo chiunque rappresenti per loro il potere che li ha sempre oppressi. In quel bagno di sangue non c’è posto per la pietà, neppure verso gli innocenti. Nella rivolta si scatenano anche i risentimenti personali e poi di colpo, come è cominciata, la rivolta finisce nella nausea per tanto sangue, nella stanchezza del corpo e dell’anima, nelle domande che non hanno risposta.
Arrivano le camicie rosse guidate da Nino Bixo per ristabilire l’ordine e quelle truppe che erano state salutate come liberatrici si trasformano nella mano armata dei padroni di sempre. La delusione invade l’anima dei rivoltosi, poi la paura e infine la coscienza che il loro destino è segnato. Uno dei rivoltosi, quando tutto si placa, si chiede sgomento di fronte alle accuse che vengono mosse: «O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà.» E quella domanda rimbomba nel petto di tutti.
Non si è combattuto per un’astratta idea di libertà ma per la “libertà dal bisogno”, perché si era creduto alle promesse fatte, che sarebbero state date, ai contadini e a chiunque avesse combattuto accanto a Garibaldi, piccole quote delle proprietà ecclesiastiche e dei terreni comunali accaparrate al contrario da nobili e borghesi. Ma Garibaldi non è entrato in paese come un liberatore, ci ha mandato Bixio che non può accettare che si sia fatta giustizia in quel modo, così istituisce un tribunale di guerra che con un processo approssimato al limite dell’illegalità fa fucilare i capi della rivolta o quelli che crede tali e impone l’ordine col terrore. Molti altri verranno trascinati in carcere a Catania e al processo che si concluderà dopo tre anni, vedranno svanire tutte le loro speranze. Non otterranno niente di quello per cui hanno lottato e la vita a Bronte e in Sicilia tornerà quella di prima: i “galantuomini” a comandare e i “cafoni” a servire nelle stesse atroci condizioni di sempre.
Il dramma del meridione continuò da allora sotto altri padroni e un’altra bandiera e il Risorgimento italiano fallì la sua possibilità di fare del nuovo Stato il paese libero e giusto che i padri fondatori come Mazzini avevano sognato.
Nel 1972 il regista Florestano Vancini raccontò nel film “Cronache di un massacro” questo amaro episodio della nostra storia nazionale, ispirandosi, oltre che ai documenti dell’epoca sui fatti raccontati, alle immagini crude e forti che le pagine di Verga ci hanno consegnato.