Uno dei problemi sociali che attanaglia il mondo, ma soprattutto l’Italia, è rappresentato dall’immigrazione proveniente dalla vicina Africa che attraverso il Mediterraneo sbarca migliaia di povera gente che sfuggendo alle guerre intestine e alla miseria approda sulle nostre coste, ma sempre più spesso annegano nel mare della speranza per via di barconi fatiscenti. La vastità del problema – che non trova soluzioni ‒ non ha lasciato indifferente neanche la letteratura (in molti libri si parla di questo fenomeno quasi biblico). Non poteva certamente mancare la sensibilità della poesia. In quest’ultimo periodo ha trattato il problema anche Oronzo Liuzzi con la pubblicazione di Lettera dal mare. Liuzzi non è la prima volta che nella sua poesia tratta temi sociali e umanitarî. D’altronde la sua lunga “carriera” di poeta ne è la prova. Nato a Fasano (BR) nel 1949, ma residente a Corato (BA), Liuzzi è un cosmopolita, un artista poliedrico, poeta e performer. Ha esposto in numerosi musei e gallerie nazionali e internazionali e in varie edizioni della Biennale di Venezia.
Come nasce questo tuo nuovo volume di poesie, Lettera dal mare, con la casa editrice salernitana Oèdipus (2018), basato sulla fratellanza e l’accoglienza?
Il flusso di movimento che ultimamente sta accadendo sul nostro pianeta è notevolmente rilevante. L’essere umano si sente smarrito e abbandonato, consentendo al potere politico ed economico di imporsi. Il problema non riguarda solo i popoli che stanno fuggendo dalle loro case, ma riguarda anche ognuno di noi in quanto migranti. Può essere psicologico, sociale, familiare, di lavoro e non ecc. Sono partito dal flusso dell’immigrazione per coinvolgere tutti noi esseri umani insoddisfatti e anonimi. Il mio fratello non è di sangue, è un concetto cristiano, è il riportare unità nella divisione. Accogliere è donare e donare se stessi ti impedisce di affondare nell’individualismo esasperato. Non è la prima volta che tratto temi sociali nella mia poesia. Nel lontano 1974, in una mia raccolta Poesie, riportai le testimonianze di uomini e bambini che erano stati rinchiusi nei campi di concentramenti nazisti, quando non si conosceva ancora la Shoah. Ho anche citato, sempre nelle mie poesie e nello stesso periodo, testi di canti rivoluzionari e popolari.
Il tema che tratti, l’immigrazione, è uno dei problemi provocati da un mondo diviso in due: l’occidente troppo ricco e il resto del mondo troppo povero. Ci sono altri aspetti da evidenziare in questo esodo di massa verso nuove speranze?
L’occidente nella sua storia ha invaso gran parte del pianeta Terra, portando schiavitù, oppressione, frustrazione, povertà, morte, sfruttamento, già dai tempi dei romani. Le colonie non hanno alimentato crescita e civiltà, bensì, secondo la mia opinione, solo orrore, potere e vergogna. I danni che l’occidente ha procurato ai popoli colonizzati sono stati indescrivibili. L’occidente ha sempre “sperato” nelle ricchezze. L’esodo di massa, invece, spera in un mondo migliore e alternativo.
Secondo te – e mi riferisco all’intolleranza, al razzismo dei nostri giorni – perché non riusciamo ad accettare l’altro da noi come noi stessi?
L’individualista ha un unico scopo: pensare solo e strettamente a se stesso e al suo orticello. Gli altri non esistono. L’altro genera in lui irrigidimento, fastidio, irritazione, PAURA.
Quando hai scritto questo volume sulle tragedie dei profughi nel Mediterraneo, cosa ti proponevi di evidenziare, quale grido di aiuto credevi di accogliere?
Mi sono sempre interessato ai più deboli, a coloro che soffrono, a quella gente e popoli che vivono nell’ombra, nella zona oscura della società. Ho sempre cancellando in me l’idea del nazionalismo. Accogliere l’altro. Aprire il cuore, lo sguardo e la mano all’altro per me è un motivo di vita.
Sembra che le popolazioni povere del mondo siano marchiati di colpe da espiare. Ma l’umanità di oggi è così sorda e cieca?
Non è l’umanità di oggi che è cieca e sorda. Complice è il capitalismo che vuole una umanità sorda e cieca, che mette l’uno contro l’altro. È il capitale che parla un’altra lingua. L’impero economico è l’attuale direttore d’orchestra. L’impero economico inibisce e infuria l’umanità, crea conflitti e guerre e paura e dominazione.
Mi piace citare un verso posto quasi in fondo al volume di cui parliamo: «nell’assoluto silenzio mio fratello con altri fratelli in silenzio uniti vegliano sulla speranza». Basterà la speranza per ripristinare la fratellanza in quest’epoca dove l’individualismo e il potere economico la fanno da padroni.
Non stare immobili, ammutoliti e aspettare che tutto venga dal cielo. La speranza è azione, lotta, sensibilità, movimento, il rifiorire, lo stare insieme, responsabilità, il portare un sollievo sull’arrido cammino del pensiero. Non bisogna confonderla con l’illusione. Uniti, tutto si può fare e tutto può cambiare.
Ora qualche domanda più generale: da dove attingi l’ispirazione delle tue poesie?
Non dal contemporaneo che è già passato. Dall’attuale. Dagli uomini con tutte le loro problematiche interne ed esterne. Entrare nel mondo come un punteruolo e scavare e capire e accedere sulla soglia del senso.
Che ruolo ha la politica nelle tue poesie?
Più che di politica (anch’io ho le mie idee che sono basate sull’interesse collettivo) parlerei del ruolo sociale ed esistenziale delle mie poesie.
Che rapporto hai con la società che ti circonda? Quale modello ti riproponi che si avveri?
Tutto è un gioco. Tutto è spettacolo. Tutto è travestimento. La realtà truccata si nasconde dietro al digitale. «Niente più confini, niente più élite», ha scritto Alessandro Baricco, «niente più caste sacerdotali, politiche, intellettuali. Uno dei concetti più cari all’uomo analogico, la verità, diventa improvvisamente sfocata, mobile, instabile».
La strategia del gioco ha investito anche la cultura, l’arte, la letteratura e oltre. Si viaggia in superficie e nell’isolamento. Abbiamo perso la lingua vera di noi esseri umani. I valori colmi di angoscia e di sofferenza si amalgamano alla cenere della memoria e della storia. Il mio rapporto con la società lo chiamerei “spirito critico”, cioè, quel fulcro di equilibrio che mi permette di analizzare attentamente l’io e l’altro, l’io e la nuova tecnologia, io e la società, con una temperatura non troppo calda né troppo fredda, mantenendo attivi i due mondi senza cadere sul sentiero dell’intraducibile e della schiavitù. Quale modello per il futuro!? Percorrere finalmente con responsabilità civile e umana l’essenza di nuovi luminosi sentieri.
Come nascono le tue poesie?
Enuncio quella fiamma di candela che si sta spegnendo. Il respiro e la vibrazione dell’essere umano. Il linguaggio dell’esistenza, temi a me molto cari. Preferisco parlare poco di me. Mi interessa l’altro. La sperimentazione prima di tutto.
Quale compito ha per te la poesia?
La parola poetica è importante, in quanto, oltre a sensibilizzare il lettore può aprire nuovi orizzonti di senso e di pensiero. Purtroppo, negli ultimi tempi, la poesia ha perso il terreno del’unità e della parola, il dire e il fare poetico. Bukowski scriveva che: «una poesia è una città, una poesia è una nazione, / una poesia è il mondo…»; ancora: «ma come Dio ha detto, / accavallando le gambe, / vedo che ho creato fin troppi poeti / ma non altrettanta / poesia».
Concludiamo questa intervista proponendo il primo testo del volume, struggente quanto attuale; struggente e speranzoso come la citazione di un pensiero di Miriam Makeba riportato in epigrafe (Non ho mai perso la speranza. Ho sempre ripetuto che sapevo che sarei tornata a casa, un giorno. Se non l’avessi pensato avrei fatto meglio a sdraiarmi a terra e morire):
mio fratello mio fratello stasera parte nell’ordinato disordine mentale mio fratello stasera parte lascia vecchi mobili amici nemici il grembo materno il latrato dei cani l’inferno che urla abbandona il tempo che muore mio fratello mio fratello guarda giù di là dal mare mio fratello non è fuori dalla speranza mio fratello respira l’odore del mare insieme mio fratello voglio andare così lontano pensa voglio capire voglio essere accecato dal mistero della luce forte voglio chiaramente vedere oltre quel colossale mare in movimento pensa mio fratello mio fratello sono stanco di vergognarmi della mia razza stanco di vergognarmi delle guerre del mio paese del puzzo della polvere da sparo di subire le inaudite umiliazioni stanco di aspettare amo respirare l’odore del mare io libero il correre la meta l’andare